Lenny Kravitz invita al sussulto: ecco Raise Vibration

Raise Vibration è l’invito che Lenny Kravitz porge al suo pubblico. Intenso, ma senza troppi arzigogoli, pecca in grinta e si rifà ‘nel contesto’

 

Raise Vibration di Lenny Kravitz è uscito ad inizio Settembre. Ovviamente ne parliamo oggi, a distanza di oltre un mese. Purtroppo ci sono dischi che assimilo con meno immediatezza. Stavolta c’è un perché.

Da ‘Let Love Rule’ a ‘Raise Vibration’. Un’Avventura lunga 30 anni

Per me che ho praticamente imparato a strimpellare la chitarra suonando pezzi tipo Always On The Run, Are You Gonna Go My Way e If You Can’t Say No è quantomeno divertente scoprire, approfondendo, cosa è cambiato in quasi venti anni da parte mia e molti di più per l’artista newyorchese.

Undici album in studio e non sentirli. Trent’anni sulla scena senza mancare mai in ispirazione e definizione dell’addominale. Ora che anche i dreadlocks tornano sulla chioma del cinquantenne polistrumentista, l’ormone delle fans raggiungerà picchi stratosferici. Tuttavia, musicalmente, la sostanza del buon Lenny Kravitz non ha subito grosse modifiche, anzi. Raise Vibration è praticamente un “prodotto tipico”, escludendo i grandi successi mondiali e la vena grintosa rock and roll.

Pre commento dettato dalla nostalgia (canaglia)

Lenny Kravitz, come chiunque, ha scritto cose eccelse ed enormi aberrazioni. La sua forza sta nel “contesto”: metti su un suo LP e sai che andrà giù che è un piacere, più o meno per intero. Raise Vibration non fa eccezione: qualche sorrisino qui, un ghigno là, un naso storto lì, un po’ di headbanging a dritta, innumerevoli ‘yeah’ a manca e le immancabili ballate a tema “amor c’ha nullo amato” etc etc.

L’opera non farà gridare al miracolo ma, di questi tempi, da un artista di anni cinquantaquattro, ci si aspettano grosse delusioni. Lui invece è rimasto molto coerente con sé stesso, operando alcune scelte stilistiche nette ma senza snaturarsi. Qui forse con meno fronzoli rispetto al passato, o comunque preso a “fare meno”, ma non più di tanto in verità. Cambia il tratto che sottolinea la scena più morbida del rock anni settanta, una punta di funk, volendo, ma è lui.

Lenny Kravitz

Lenny Kravitz | Raise Vibration: le dodici tracce dell’album

We Can Get It All Together. Organo. Suoni in crescendo. Voci armonizzate come se non ci fosse un domani. Batteria che a loop riproduce quasi lo stesso pattern. Basso che marca gli accenti nella seconda strofa. Niente, c’è già molto Lenny Kravitz nei minuti iniziali di Raise Vibration. Il testo suggerisce una sorta di ringraziamento nei confronti del padre per una spinta a nuova vita. Il bentornato che ti aspetti.

Low. Secondo singolo estratto e relativo video, è un funk con persistente chitarra sul registro alto, tappeto di tastiere, qualche slap del basso, mille voci e una secchiata di vocalizzi. Fruibile in modo estemporaneo.

Who Really Are The Monsters. Continuando sulla falsariga dei titoli didascalici, ci troviamo di fronte ad un pezzo che ha molto di Michael Jackson. Canzone prolissa però, nonostante il tema interessante della guerra intesa come conseguenza di un mondo che pecca in comunicabilità. Si, le percussioni, l’assolo di chitarra e il sax sul finale non giustificano la durata, secondo me. Fermatelo.

Rise Vibration. La sostanza è questa (e si ripresenterà ancora più avanti): bisogna perseguire l’amore, una forza che unisce. Ciò accade attraverso le vibrazioni che sono il sussulto ad una guerra senza armi e senza violenza, come fu per Gesù, Gandhi e Martin Luther King. La forma proposta da Lenny Kravitz è scandita in fasi. In principio solo voce e chitarra, assieme, all’unisono, obbligate. Poi una lunga sessione strumentale e il ritorno all’origine. Finale multiculturale scandito da musica tribale. Nessuno è profeta in patria.

Johnny Cash. Prima ballad. Chiaro tributo al re del country statunitense, col riferimento alla sua musica come ancora di salvezza nei momenti no della vita. Il difficile processo di raccontarsi attraverso i sentimenti provati. Purtroppo persiste una tendenza al prolisso senza particolari spunti per giustificare certe lungaggini, escludendo una porzione rilevante sul finire. Gli è piaciuta la formula.

Here To Love. Pianoforte predominante. Aria rarefatta. L’unione di tutti gli uomini per contrastare la violenza, anche quella verbale e psicologica. L’amore come valore che accomuna perché siamo qui per amare e non per giudicare seminando odio nel prossimo. Bello il coro con le voci femminili.

It’s Enough!. Primo singolo estratto. Lenny Kravitz canta l’amore ma anche i suoi antagonisti. Mentre lo xilofono – probabilmente lo stesso di I Belong To You (Album 5, del 1998) – ci perfora il timpano, l’autore si lancia in una critica alla discriminazione razziale, alla guerra in medio oriente orchestrata dai paesi ricchi ai danni della povera gente e soprattutto in un elogio morale alla mamma di tutte le culture e civiltà, l’Africa. Ci sono voluti otto minuti ma il risultato, stavolta, è decisamente migliore.

Dopo la hit commerciale, il nulla. Ma la musica suona, comunque

5 More Days ‘Til Summer. Sicuramente il brano più pop e commerciale del disco. A seconda dei punti di vista potrebbe essere intesa quale leggera digressione, o tocco “tipico” da inserire assolutamente nella produzione. Intanto va, e il sitar a contorno ha parecchio senso, pure se si parla di persone che fanno dei lavori al limite dello sfruttamento e contano i giorni alle vacanze, o al licenziamento, o a chissà cosa. Attualità.

Da qui in avanti le idee di Lenny Kravitz perdono concretezza in modo esponenziale. Ciò che invece guadagna consenso e spessore è l’apporto degli strumenti. Il sax su tutti, anche se non scopriamo l’acqua calda, in quanto costante negli album del rocker.

The Majesty Of Love. Un’interminabile avventura alla ricerca dell’amore assoluto (che dura da trent’anni). C’è molto Stevie Wonder nel pezzo, anche se sembra di essere dentro un poliziesco post hippy, coi basettoni o i baffoni, in giro a risolvere casi in pantaloni a zampa e stivaletti a punta. Non proprio un’immagine soave a cui votarsi.

Gold Dust. La polvere d’oro rappresenta il dono stesso della vita, l’artista lo declina con decine di voci armonizzate sovrapposte. Molto insolito, con pause e sospensioni definite.

Ride. Si sente tutta la stanchezza accumulata in queste fasi finali di Raise Vibration, dove la ripetizione è troppo esacerbante, sia per i testi che per le soluzioni musicali. Ride è l’ennesimo plauso ad una donna veicolo d’amore.

I’ll Always Be Inside Your Soul. Batteria semi campionata simil trap, ma meno ignorante. Idem come sopra. Anonima.

Parlarne male e viverlo bene

Rileggendo il commento sembra che l’ultima fatica di Lenny Kravitz faccia un po’ cagare. Non è così, se si inserisce una preliminare clausola che azzera totalmente le aspettative al rialzo, rispetto alle migliori produzioni dell’autore, tutto assume una forma ideale. In definitiva le dodici canzoni sono tutte piacevoli, eludendo la tara della sopportazione personale. Qualcuna ha più mordente, altre maggiore semplicità o suggeriscono interpretazioni meno vincolanti. C’è diversificazione con determinati punti in comune che legano l’intera struttura. Bene lo spazio dedicato ai soli strumenti, peccato manchi quel quid di grinta che in un disco del genere aiuta a tirar su il morale.

Mario Aiello

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