I Hate My Village: Progetto ambizioso e risultati eccelsi

I Hate My Village diverte, stuzzica la fantasia e culla le orecchie nei momenti giusti, nei modi giusti e col grande pregio di essere ben suonato, ben strutturato e ben congeniato.

Col senno del poi sono felice di ricordare ai gentili lettori che il 18 Gennaio, per l’etichetta La Tempesta Dischi, è prevista la pubblicazione dell’album I Hate My Village. Un LP di nove tracce che definirei “strumentale con incursioni vocali”. Il minimo comune multiplo non è propriamente definibile, secondo me, forse il suggerimento meglio riconosciuto è ascrivibile alla scena rock-prog anni settanta ma sapientemente coadiuvata da suoni e sonorità di moderna concezione.

I Hate My Village, Il titolo si estende anche alla compagine che si cela dietro gli strumenti: il “super gruppo” composto dai celebri Fabio Rondanini (Afterhours, Calibro 35), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), con la partecipazione di Alberto Ferrari (Verdena). So bene che dietro il termine “super gruppo” quasi mai si trovano riscontri alla Emerson, Lake & Palmer ma, da scettico convinto, il preconcetto mi si è sciolto dal lobo frontale come neve al sole già dalle prima note. Vi racconto il disco, il perché lo capirete da voi.

I Hate my Village

Pronti-partenza-via e Tony Hawk Of Ghana mette subito in chiaro alcune cose: una su tutte la totale simbiosi tra la vena fredda dell’elettronica ed il sangue caldo scandito dai suoni crudi della chitarra. Il connubio è calzante oltre ogni ragionevole dubbio, non ci sono altri modi per dirlo. L’hard panning degli strumenti “principali” – ovvero la separazione sui due canali stereo – ne mette in risalto le qualità espressive, puntando due luci ad occhio di bue sugli interpreti. Da una parte le frequenze basse decise e cadenzate, dall’altra la sei corde che si esprime liberamente, dando vita ad un riff che resterà a lungo nella corteccia cerebrale dell’ascoltatore. La profondità spaziale, ma allo stesso tempo eterea del comparto ritmico presieduto dalla batteria, fa da contraltare alla voce che dire perfetta risulta sia puerile che riduttivo. Sentire per credere. Non si poteva cominciare meglio.

Presentiment è una strumentale di concetto. Gli accenti fuori, spostati ritmicamente oltre i limiti dello scibile a cui può ambire l’uomo medio, rappresentano paradossalmente le linee guida degli I Hate My Village che trasportano l’avventore per tutta la durata del brano. Risaltano all’orecchio reminiscenze di Leoniana memoria ma in chiave contemporanea, senza ovviamente offendere sua maestà Ennio Morricone. Qui il riff è doppiamente sincopato con un’impostazione strutturale più canonica, se vogliamo. Il pizzico di taranta, mio modesto parere, nell’intorno del minuto 3:00, fa il paio con la chiosa da isterismo d’autore che impera il finale: l’ho amata! Nonostante non simpatizzi affatto per soluzioni del genere.

Acquaragia sembra arrivare direttamente dagli anni settanta, quelli del progressive anglosassone, fine, tecnico e soprattutto evocativo. Torna la voce e si conferma come valore aggiunto, l’elemento che riesce a circoscrivere il concetto e mettere in moto il cerchio magico. La parola d’ordine è “ritmo”. Il rullante perennemente sui levare diventa un autentico compagno di viaggio, scandisce il tempo come da manuale ed anche gli ascoltatori più quadrati di sempre sapranno perdersi e ritrovare il punto, suggeriti da questo piccolo ma enorme dettaglio.

Location 8 l’ho idealmente vissuta come una sorta di scorciatoia, non me ne vogliano gli I Hate My Village. Una breve stradina poco battuta che ha lo scopo di spostarsi da una via principale verso un’altra altrettanto famosa. Gli elementi portanti sono distribuiti in piccoli interventi su cui spicca un singhiozzante piano virtuoso. Nel frattempo si comprende quanto forte sia il messaggio: ogni suono è buono per far musica, soprattutto quando si esprime groove. E sono solo quarantaquattro secondi di musica.

Cosa è Tramp se non la paradossale appendice del brano precedente? Me lo chiedo e contemporaneamente lo asserisco. Mi spiego: proseguendo sulla falsariga della forma strumentale, qui si sente il fuoco rock che brucia nelle note, con annessa (e doverosa) licenza poetica sul piano interpretativo.

I Hate my Village

 Datemene di più, ne voglio ancora!

Fare Un Fuoco diverte subito sfruttando una scomposizione ritmica non proprio semplice, pur restando nell’ambito di un tempo “facile”. Tutto diventa più chiaro (per chiunque, anche per i meno avvezzi) con l’ingresso di voci e chitarra “solista”, giusto per intenderci. Per me è un rock psichedelico con il gusto e la sapiente mano di chi comprende che non servono lungaggini e decine di flanger o effetti affini per renderlo tale. I Hate My Village sanno fare psichedelia in quasi tre minuti. Non ne conosco molti che ci riescono.

Fame. Si calmano gli animi, parecchio, e ancora una volta ci si ritrova spettatori di una scena spaghetti western, di nuovo in chiave contemporanea, senza cadere nel banale. Qui, in un presente distopico e trasversale al vecchio west, manca solo lo scoccare del mezzogiorno e qualcuno che tiri fuori fucili e zolfo per spararsi in duello. L’ingrediente segreto, però, è l’ironia.

Bahum, sulle prime, è un lento ordinato e calmo. Le dinamiche si fanno incalzanti con l’andare della progressione mentre armonia e melodia, seppur molto semplici, danno l’impressione di provenire direttamente dal Sud del mondo.

Conclude l’esperienza I Hate My Village. Un vero e proprio sunto artistico dell’intero disco. I cambi decisi e repentini sono la vera costante intellegibile. Un full reprise con variazioni sul tema che scandisce un flusso di coscienza ricco e incontrollabile.

 Non posso credere a me stesso…

Premesso che Afterhours e Verdena non incontrerebbero il mio gusto musicale nemmeno se mi torturassero a vita (salvo qualche vettore tangente occasionale). Premesso che i “super gruppi” all’italiana, spesso, mi fanno cadere le braccia (per non dire altro). Dunque, premesso tutto ciò, I Hate My Village non mi ha propriamente sorpreso, perché sono conscio della caratura dei musicisti che l’hanno scritto e suonato, questo disco mi è proprio piaciuto dalla prima all’ultima nota. L’album diverte, stuzzica la fantasia e culla le orecchie nei momenti giusti, nei modi giusti e col grande pregio di essere ben suonato, ben strutturato e ben congeniato, ma questa non è una novità, a meno che tu lettore non sia un 2000 sprovveduto e saccente. Sarei tentato di mettere un voto ma preferisco non essere deriso oltre certi limiti già rodati e sostenibili. Viva il progetto I Hate My Village.

Mario Aiello

Ciao, abbiamo rilevato che stai utilizzando una estensione per bloccare gli annunci. I banner pubblicitari ci consentono di fornirti notizie in maniera gratuita.

Supportaci e continua a leggere disabilitando il blocco e inserendo il nostro portale nella whitelist