Marco Cocci, artista poliedrico, volto noto nel panorama musicale e cinematografico italiano, giovedì 16 Maggio ha pubblicato Steps, suo esordio solista. Personalmente lo ricordo con molta gioia nei panni del frontman dei Malfunk, collettivo indie – oggi diremmo così – che ha avuto un ruolo importante nella scena alternative italiana tra gli anni novanta e i primi duemila. Molti altri invece ne avranno certa memoria per le interpretazioni di film di successo italico come L’ultimo Bacio e soprattutto Ovosodo.

Tornando a noi, Steps è un album che va oltre le memorie musicali riferibili a Marco Cocci. Dimentichiamo i Malfunk, dimentichiamo pure il super gruppo Rezophonic. Le tredici canzoni che compongono l’album sono tutt’altro. Vorrei partire sbagliando subito gli accostamenti, provare a restare il più possibile sulla linea del ‘noto al punto che non puoi non conoscere’. Steps richiama a fasi alterne (ma anche dilatate) qualcosa come il folk di Dylaniana memoria, una spolverata di R.E.M., dettagli alla Joe Strummer ultima maniera e, infine, una nota di Eddie Vedder – Into The Wild. Fu così che riuscii ad imprigionare l’esordio di Marco Cocci in una serie di errate allusioni ed etichette mal compilate. Mi perdonerà.
Come dichiarato dall’autore, il disco è grossomodo il racconto degli ultimi cinque anni della sua vita, sezionato in fasi non sempre relazionate tra loro e soprattutto figlio non del costrutto finalizzato alla produzione, bensì “nato per necessità di nascere”.
Steps: le tracce.
While Everyone Sleeps. Pronti via e subito è chiaro il respiro internazionale della produzione. Il come e il perché, magari, lo approfondiamo in seguito. Impronta britannica sulle prime, ma la sensazione cambierà spesso e più volte durante la riproduzione dell’LP. Canzone ‘capostipite’ che punta molto sul rapporto intimo che allaccia con l’ascoltatore. Uno slow tempo che manifesta l’evoluzione delle esperienze musicali dell’autore.
Love Song. Lievemente frizzante ed auto riferita. Taglio folk con incursioni sia moderne che contemporanee. Gli arrangiamenti godono di grande personalità mentre la voce, in alcuni casi, tende a non essere al pari dei suoi colleghi. Tuttavia l’insieme è gradevole e totalizzante. Una canzone per sé stessi, anche se non comprendo il senso di sottolineare quanto non interessi il parere altrui. Se non ti interessa…
White Quiet Place. Arpeggi e suoni sospesi sono gli ingredienti principali che Marco Cocci ha voluto usare per questo brano. La grancassa in quattro, quasi muta, rappresenta la minuzia che sposta gli equilibri. Tratto descrittivo imperante e forte sensazione di essere destinatari di una narrazione.
Cry. Intermezzo breve e conciso in forma pianoforte e voce. Quando un pianto, un grido, resta forse l’unico mantra da recitare. Dal brano cito: “noi siamo ciò che siamo”. Forse bisogna solo trovare il modo di accettarlo.
Good Day. Un po’ R.E.M, lo avevamo accennato prima, ma le influenze sono tante e si sentono tutte. Canzone che cammina da sola con spunti melodici chiari e facilmente distinguibili. Bello il basso che con piccoli accorgimenti, a parer mio, riesce in più occasioni a rubare la scena.
Psychology. Al netto di alcuni suoni ridondanti, immagino derivati dalla ripresa del piano, si cela un brano dall’impostazione autorale, che però differisce dallo schema classico grazie alle chitarre ‘psichedeliche’ che fluttuano ovunque.
Trouble. Organo e voce. Stop. La formula della voce accompagnata da un solo strumento (anche se di fondo ce ne sono comunque parecchi a corredo) sarà quella con maggiore forza espressiva dell’intero Steps. Il pericolo attraverso l’agitazione, derivata primaria di un rapporto conflittuale basato sulla menzogna. I contenuti non mancano a Marco Cocci.
As The Sun. Forse è questo il punto massimo di gioia e allegria che il disco può e vuole fornire all’ascoltatore. Certo, senza esagerare né generalizzare. La crescita emotiva, ma forse sarebbe più opportuno parlare di evoluzione, è dimostrata nella variegata interpretazione delle canzoni fino ad ora. Un prisma che riflette tanti colori ma che gode di un’anima definita e solida.
Disappeared. Brano corale, non tanto per il localizzato apporto di voci che restano comunque marginali, ma per l’interpretazione eclettica di alcuni frangenti. Sunto vivace di più menti pensanti. Se sono in errore, ma non credo, chiedo venia. Tema dell’annichilimento personale per l’ingombrante presenza altrui. Come e perché ci si ritrovi davanti a certi dilemmi è ancora poco chiaro, nonostante sia all’ordine del giorno.
Blue Boy. In tutta sincerità aspettavo questo momento da un bel pezzo. La vena pulsante riferibile agli eighties non poteva mancare in un disco di tredici brani con questi presupposti. Si tratta solo di un trafiletto concettuale di poco meno di due minuti, però ecco le voci sintetizzate e quel suono di rullante tipico della decade.
Days Of Grace. La produzione più lunga di Marco Cocci non spicca per varietà. L’elemento trasversale ed inconsueto, devo ammetterlo, è il sali-scendi. In breve: mentre pensi stia finendo con un canonico fade out lungo, risale nuovamente per poi ritornare pian piano al silenzio. Penso che la soluzione assunta sia figlia di una sessione di registrazione particolarmente sentita ed efficace. A conti fatti è valsa la pena tenerla così, o renderla come è.
Sleepless Man. Argomento che introduce un’afflizione che condivido. Musicalmente non riesco però ad associarvi niente che non sia di una violenza inaudita. Punti di vista e, soprattutto, di interpretazioni. Poi magari mi perdo delle sfumature risolutive nel testo.
Last Lost Song. Che per chi non avesse l’intuito della volpe è l’ultima canzone di Steps. Maledettamente folk, per ovvi motivi di estrazione più statunitense che britannica, come invece in linea di massima, nonostante tutto, sembra trasparire dall’album. Come in altri brani, il dualismo voce più strumento risulta una formula ottimale per forza espressiva e comunicazione. Un assunto algebrico che potrebbe sostituire la struttura di ogni brano dell’LP, rinunciando chiaramente ad alcune notevoli scelte di arrangiamento. Chissà.
Un album pensato e strutturato coi controfiocchi.
Marco Cocci riesce a racchiudere in Steps, suo disco di esordio da solista, una considerevole quantità di stili musicali molto diversi e quasi opposti a ciò che avremmo immaginato a priori potesse proporre. Una qualità artistica coltivata sia dall’esperienza che dalle altre competenze da cui trae beneficio, ma soprattutto in fase di registrazione, coadiuvato da nomi importanti del panorama musicale italiano e non. Mi riferisco a Roberto Dell’era (Dellera Afterhours), Lino Gitto (The Winstons), Roberto Angelini, Federico Poggipollini (Ligabue), Bobby Solo, Durga McBroom (Pink Floyd, David Gilmour), Vincenzo Vasi (Capossela), Donald Renda, Francesco Bruni. Qua non si scherza e l’apporto si percepisce tutto.
Sarei molto curioso di ascoltarlo dal vivo. Lo troverei sicuramente da solo e con una chitarra in braccio.
Mario Aiello