Californication, l’album d’oro dei Red Hot Chili Peppers

Californication, uno dei dischi più rappresentativi dei Red Hot Chili Peppers, spegne oggi venti candeline. Facciamo assieme un veloce ripassino e scopriamo cosa è cambiato a due decadi dalla pubblicazione.

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Red Hot Chili Peppers – Californication

Ricordo bene quel fatidico 8 Giugno 1999, lo trascorsi per intero vagando col mio cinquantino alla ricerca affannata del disco. Purtroppo riuscii a reperire il tanto ambito CD solo qualche mese dopo, perché nel frattempo spesi tutti i risparmi per un amplificatore. Al tempo internet in Italia andava a 56k, credo, ma la fortuna di avere amici con cui scambiare gli LP e il successo commerciale di Mtv placarono la sete di un giovane ragazzo desideroso di possedere una propria copia di Californication.

Red Hot Chili Peppers – Californication

Un personalissimo approccio.

A quei tempi muovevo i primi passi da autodidatta della chitarra, volevo a tutti i costi imparare a suonare qualcosa del nuovo album dei Red Hot Chili Peppers. Give It Away e Under The Bridge non bastavano più. Non a caso ho escluso il One Hot Minute, ma sui perché ci spenderemo qualche parola più avanti. Californication è stato sicuramente il disco che ho più ascoltato e studiato (diciamo così) negli anni a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio. Con l’esperienza ho compreso che i motivi principali di tanto attaccamento sono quasi tutti imputabili alla sonorità di questa opera, rispetto alle precedenti della band californiana. Il piglio orecchiabile ha fatto facilmente breccia nella mente di un pischello che di musica, in tutta onestà, non ne capiva poi molto.

Queste caratteristiche hanno generato un vero e proprio dualismo nelle critiche. Da una parte chi applaudiva al nuovo corso, pur mantenendo alcuni solidi concetti di base; dall’altra i detrattori delusi dal cambio di rotta, tristi ed incupiti dall’abbandono del funk-rock granitico che aveva sicuramente lanciato i Red Hot Chili Peppers nel mondo della musica che conta. Se Californication ha venduto milioni e milioni di copie, avrà comunque avuto i propri meriti, suppongo.

Un breve passo indietro: la faccenda di John Frusciante.

Prima di inoltrarci nel dibattito sull’album, è necessaria una premessa.

Penso che al giorno d’oggi non esista individuo che ignori, almeno di nome, chi sia il buon John Frusciante. Negli anni novanta le cose erano un po’ diverse ma la stella del chitarrista era già in forte ascesa. I problemi con le droghe pesanti, eroina e cocaina su tutte, portarono John fuori dall’orbita dei Red Hot Chili Peppers. Era il 1992, più o meno. Dopo i due capolavori assoluti del panorama funk-rock Mother’s Milk (1989) e Blood Sugar Sex Magik (1991), la patata bollente passò nelle mani del chitarrista heavy Dave Navarro, già Jane’s Addiction.

Doppia disgrazia: John Frusciante distruggeva se stesso con la droga; Anthony Kiedis, Flea e Chad Smith smontavano pezzo per pezzo il sound caratteristico dei Red Hot Chili Peppers per andare incontro alle necessita stilistiche di Navarro, più orientato al rock con un accenno di psichedelia, oltre che all’heavy (quasi) metal.

Per fortuna, nel 1998 John Frusciante cominciava a riprendersi dalla devastazione narcotica in cui si era abbandonato. Questo grazie al rehab e la volontà di uscirne. Flea, in uno dei loro costanti incontri, gli chiese di tornare nella band (nel frattempo Navarro era stato già fanculizzato con garbo) e la risposta affermativa del chitarrista aprì, di fatto, un nuovo ciclo dei Red Hot Chili Peppers. Una fase che ha come capostipite proprio Californication e si estenderà fino al 2010 circa, quando, ancora una volta, John Frusciante lascerà la compagine di Los Angeles. Certo, tra alti e bassi, altrimenti sembra che parliamo di Mozart. Con tutta la stima e il rispetto.

Tematiche e conversioni musicali.

Il ritorno di Frusciante ha contribuito fortemente alla causa dei ‘nuovi chili peppers’ su più fronti: tematiche delle liriche e arrangiamenti delle composizioni. Personalmente ritengo che i Red Hot Chili Peppers non siano mai stati grandi senza Frusciante e mai lo saranno con la sua assenza. Californication è chiaramente un’opera di concerto, ma volendo attribuire più peso specifico al ritrovato chitarrista, non si commetterebbe errore alcuno. L’esperienza di distruzione personale, avvicinatosi anche alla morte per overdose, la si trova a macchia di leopardo nei quindici pezzi che costituiscono l’LP. Le sonorità sono meno stizzose ed efferate del “periodo Navarro” e le molteplici influenze di John hanno apportato un enorme carisma che prima è mancato.

Nonostante qui il tratto sia comunque maggiormente votato al grande pubblico, le melodie sanno spaziare dall’orecchiabile al ricercato. Si possono sentire chitarra e basso acustici, ma anche distorsioni e slap su groove al cardioplama. Non si parla più solo di donne, sesso e ‘derivate dell’indotto’ ma anche di solitudine, debolezze e possibilità di riscatto. Il denominatore comune è la California, terra di spettacoli e di teatralità, spesso grottesca, ma che diventa una costante nell’essere di chi la vive o la ambisce.

Californication: Panoramica sulle canzoni.

Anche se la band, al tempo, decise di uscire col singolo Scar Tissue, inserendo il CD nel ‘walkman’, la prima cosa che avresti percepito sarebbe stata la potenza pura di Around The World. Così si imposta la struttura di un disco e questa è opera del produttore Rick Rubin. Diversificare la proposta, non offrire banali riferimenti e ritrovarsi coerenti con la somma delle canzoni, non con la principale linea guida. Difatti al pronti via si viene trascinati dal ritmo e dal basso che è da sempre prima donna, tratto più che unico dei Red Hot Chili Peppers.

Altro clima per Parallel Universe che invece alterna strofe sommesse a ritornelli brevi ma frenetici. Nella complessa visione d’insieme di Californication questa canzone è tra le più deboli. Funziona per l’impostazione globale del ‘fruibile, orecchiabile, non preoccupatevi che poi le caratteristiche migliori ve le spicciamo noi’.

Atto tre, Scar Tissue. Inutile dilungarsi, una canzone che conosciamo tutti. Emblema del cambio stilistico che ha caratterizzato Anthony Kiedis e company da quel momento e per almeno dieci anni avanti. Personalmente ritengo che l’equilibrio imposto sia estremamente gradevole e comunque ricco di cose buone (alcune meno, ma altre eccelse). Comprendere a fondo cosa tratti una canzone dei Red Hot è cosa ardua, ma già dalla malinconia delle note si capisce quanto stiano cambiando gli scenari lirici. Assolo semplice ma coinvolgente e, soprattutto, ancora oggi si discute dell’intonazione della chitarra un po’ fuori standard per far suonare a modino il riff principale. Eroi. Era il 1999, non dimentichiamolo.

Segue un tormentone radiofonico da 10 passaggi al giorno: Otherside. Non nascondo che con la band da ragazzo è stato il primo pezzo su cui ci siamo fiondati. John Frusciante ha scritto cori di ogni genere, con enorme merito, qui si supera per semplicità in rapporto alla presa sul pubblico mentre Il bridge è tra i miei preferiti, meno l’assolo troppo, troppo semplice.

Torna l’energia e quella vena rap quasi finta dei Red Hot Chili Peppers che per anni ha fatto tendenza. In bene, si intende. Questa è Get On Top, wah-wah sulla chitarra come se non ci fosse un domani, approccio percussionistico della batteria, piccole digressioni sul tema e via, spediti e diretti.

Californication, la title track che ha reso meno vuote le sere di molti ragazzi come me, quando si andava in giro con un chilo e mezzo di lettore portatile e quattro pile all’uranio impoverito per far funzionare il marchingegno. Semplice, orecchiabile, un po’ triste, volendo, ha insegnato a fare il barré a mezza italia di millenials alle prese con la chitarra, ma che vogliamo di più da una hit tanto mondiale da fare il giro del globo almeno cinque, sei volte.

Rock puro con Easily, che resta ancora oggi tra le mie preferite.

Porcelain si aggiudica il premio come canzone fuori dagli schemi dell’intero Californication, il fruscio e l’aria sommessa creano il presupposto per una condivisione intima e personale. Comprendendo pienamente i detrattori, come si fa a non apprezzare questo brano? Almeno idealmente.

Giro di boa.

Emit Remmus, ovvero ‘summer time’, pare sia stata scritta da Anthony Kiedis dopo una tresca con una delle Spice Girls, non so quale. A conti fatti l’isterismo del ritornello sembra sublimarsi così, tra alti e bassi: chi non perderebbe il senso critico verso se stessi dopo una tresca con una delle Spice Girls (dell’epoca). Amen. La barca non affonda grazie al solito Flea che è calamita di attenzione.

Ritorno al passato, nel passato. I Like Dirt ti fa amare il rullante di Chad Smith e il funk d’annata. Nulla di trascendentale ma fatto bene, piccolo intervento rock anni settanta, coinvolgente, la giusta sferzata al brano numero dieci. A questo punto molti nemmeno ci arrivano.

This Velvet Glove. Senza vergogna metto le mani avanti dicendo che la sfumatura acustica (qui in modesta parte) dei Red Hot Chili Peppers in Californication è il fiore all’occhiello di tutto il disco e lo dimostrerà poco più avanti con un’altra canzone ancora più profonda e da antologia, secondo me.

Le influenze eterogenee di John Frusciante sono alla base di Savior. Penso sia quasi ed esclusivamente farina del suo sacco. Abbiamo già accennato dei cori curati e solidi della produzione, bene, con questa canzone in molti, per anni, hanno ripetuto fino alla nausea: “call out my name, call and I came”.

Purple Stain è forse il brano più vicino alle sonorità primitive della band. La grandezza di un gruppo a tre elementi, basso chitarra e batteria, che riesce a suonare come un’orchestra, dove i vuoti non sono tali, ma ‘pause suonate’. Lo so che fa ridere ma chiedete ad un qualsiasi maestro di musica, le pause si suonano e se riesci a farlo in tre, come lo fanno i Red Hot Chili Peppers, hai ottime frecce al tuo arco per una carriera luminosa.

Right On Time riprende pari pari quanto detto per il pezzo precedente, con la sola differenza che ora ci si avvale di un refrain lineare e melodico a più voci. Tutto condensato in appena un minuto e cinquanta circa.

La perla giunge alla fine: Road Trippin’ . Niente batteria, tutto acustico, basso, chitarra ed archi. Capolavoro.

Red Hot Chili Peppers – Californication

Cosa è cambiato dopo venti lunghi anni.

La conclusione di questo articolo non può essere semplice. A conti fatti queste righe rappresentano più una celebrazione che una critica postuma col senno del poi. I Red Hot Chili Peppers hanno scritto fiumi di musica apprezzata nel mondo. Californication è il loro album più suonato, più venduto e penso anche quello più spinto dal punto di vista del marketing. Per anni, anche dopo l’uscita di By The Way (2002), in radio e su Mtv sono passati i singoli del settimo lavoro anziché di altri. Senza ombra di dubbio è il disco che ha saputo abbracciare fan di estrazione diversa, provando a non tener conto dei delusi appassionati solo ed esclusivamente della loro forma espressiva originale, Californication ha segnato una svolta più nel bene che nel male.

Con ogni probabilità, se la compagine di Los Angeles ha potuto incassare anche il secondo addio di John Frusciante, riuscendo a proseguire il percorso tra alti e bassi, è grazie alla forza di Californication. Tutto ciò che è stato seminato qui, ha portato frutti anche in mancanza dell’unico chitarrista propedeutico all’ingranaggio Red Hot Chili Peppers.

A mio parere le quindici tracce dell’opera sono la fenice che risorge dalle ceneri di John Frusciante, nonostante sia innegabile e palese il contributo chiaro e delineato di ogni elemento secondo le proprie peculiarità e caratteristiche. Dopo venti anni resta un prodotto che non si confina nel tempo in cui è stato portato alla luce ma che, tuttavia, funziona meglio se contestualizzato a quel periodo storico, soprattutto in virtù di ciò che verrà dopo.

Mettiamola così: esistono due grandi momenti nella carriera dei Red Hot Chili Peppers ognuno dei quali potrebbe vivere di vita propria e in modo parallelo rispetto all’altro. Uno è il ‘momento’ Blood Sugar Sex Magik, sempre con John Frusciante, inglobando i sentori di Mother’s Milk e poco altro del precedente. L’altro invece è proprio il ‘momento’ Californication. Tutto il resto è… semplicemente ‘altro’.

Mario Aiello

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