Per celebrare i venti anni di attività, gli svedesi Sabaton hanno pubblicato il loro decimo LP dal titolo The Great War. Album disponibile già dallo scorso Luglio in più o meno tutti i formati oggi reperibili. Il disco, distribuito dall’etichetta Nuclear Blast, è composto da undici tracce quasi integralmente intrise di quel sapore aspro tipico del power metal a sfondo epico.
A coloro che non hanno esperienza con la band del cantante Brodén, posso anticipare che non ci sono draghi alati sputa fuoco e cavalieri dalle scintillanti armature nelle loro canzoni. Il tema è da sempre tutto incentrato sulla guerra. Stavolta i Sabaton convogliano ogni dettaglio sulla guerra per antonomasia, ovvero il primo conflitto mondiale. Qualcuno l’aveva già intuito dal titolo dell’opera?

Dieci album in venti anni.
La storia della band ha da sempre pochi capisaldi. Il primo è rappresentato dall’enorme produttività: senza contare i dischi live, siamo ad una media stratosferica di un long playing ogni ventiquattro mesi. Il secondo è che purtroppo la formazione originale non esiste più da lustri e le fila della compagine hanno più o meno avuto diversi interpreti, al di fuori della voce di Brodén e del basso di Sundström. Nonostante ciò, la forma e i contenuti sono coerenti all’idea primordiale originaria, per la gioia dei fan e dei puristi del genere. Ultimo, ma non per importanza, la volontà di dedicarsi unicamente a tematiche belliche o appartenenti al suo ‘indotto’ (che detta così è di un becero quasi nazista). Le premesse storiche finiscono qui.
I Sabaton sono, loro malgrado, più riconosciuti ed attivi fuori dall’Europa. Stati Uniti e Russia sono i palcoscenici migliori per la band. Può sembrare strano, a fronte di un genere nato ed evolutosi quasi esclusivamente nel nord del vecchio continente, ma le cose stanno così, a parte una più tiepida accoglienza in terra “germanica” (e ascoltando The Great War si può capire anche il perché). Per chi fosse interessato, unica data del tour per l’Italia è prevista nel Gennaio 2020 all’Alcatraz di Milano.
The Great War: panoramica sulle tracce.
L’album è un concept. Pista già battuta dalla band svedese ma che ritrova in questo ultimo lavoro una solidità di intenti davvero notevole. The Great War è un racconto di battaglie e uomini, di storie e conseguenze. A tratti convergente al musical tanto è forte la componente narrativa. Ne parliamo un po’ meglio tra poco, ma senza addentrarci troppo.
I Sabaton partono subito riconoscendosi nei crismi di genere. The Future of Warfare è un teorema collaudato fatto di obbligati, tappeti di tastiere, riff di chitarre non avvilenti, batteria dalla grancassa predominante e voci corali al limite del poema epico, con picchi sugli alti quando il refrain si avvicina. C’è tutto il repertorio classico insomma, si può percepire una lieve flessione sulla composizione che restituisce un ascolto forse meno impegnativo rispetto al passato – passato costellato di buoni alti ma anche di cadute non senza conseguenze – e per questo fruibile un po’ a tutti. Oddio, tutti quelli che non si spaventano davanti a suoni comunque mai docili, ma neppure apocalittici.
Seven Pillars Of Wisdom pompa la sua energia su un riff sincopato e trascinante. Il vero cambiamento è da riferirsi al fatto che i Sabaton tendono a suonare senza troppi orpelli, lasciando intatta una base propedeutica all’ascolto delineata per lo più dalla melodia del canto e dalla quasi totale assenza di elementi progressive nella struttura dei brani. Almeno è ciò che è accaduto fino a qui.
Tralasciando solo per semplicità la questione della prosa e comprensione dei testi, 82nd All The Way riesce in poche mosse ad approcciarsi in modo ‘easy’ nei confronti dell’ascoltatore, facendo storcere il naso a qualche purista. Un pezzo troppo melodico e dall’impostazione ritmica e armonica senza grossi sussulti, anzi. Tuttavia vale la regola delle cose semplici, cioè quelle che a conti fatti riescono comunque bene. La canzone coinvolge e diverte, a fronte di una lirica per niente gioiosa. Peccato per il finale che, assieme quello delle tre precedenti, risulta quasi abbozzato, senza appeal.
Sulla falsa riga del brano appena concluso The Attack Of The Dead Man riprende un’impostazione che, devo assolutamente confermare, funziona, soprattutto al fine narrativo delle storie che l’intero The Great War si prefigge di raccontare. Musicalmente la voce si incastra al rigo ritmico sfruttando gli accenti sfalsati, semplici ma di matematica cadenza, ed assieme ai contrappunti di chitarra creano la giusta atmosfera. Grande assente, per piglio e fierezza, il basso. Tuttavia è doveroso concedergli il beneficio del dubbio, per motivi tecnici il mio ascolto non è stato sorretto dai supporti audio degni.
Devil Dogs è invece più scolastica nell’interpretazione e nelle piccole sfumature. In fondo sembrerebbe essere il pezzo con la maggiore influenza del ‘vecchio’ bagaglio dei Sabaton. Fanno timida comparsa alcune soluzioni che richiamano la forma spettacolare dei musical. Con un pizzico di elasticità mentale si potrebbe figurare la condizione che plasma la rappresentazione citata. Basta davvero poco. D’altronde i live della band svedese godono di una componente teatrale atta a spettacolarizzare ciò che i musicisti traducono in note e suoni.
Quasi una vena nostalgica avvolge la intro di The Red Baron. Il richiamo alle sonorità anni settanta, forse di estrazione americana, crea un finto presupposto per ciò che seguirà: una partenza a razzo, spedita e senza freni. The Great War è fin qui un album che si presta favorevolmente ad un ascolto attento e senza sconforto, grazie principalmente alla modica durata delle canzoni, circa tre minuti e mezzo per ciascuna, e alla volontà di mantenere le linee del canto melodiche e non articolate.
In medio stat virtus?
Domanda ricorrente in verità. La risposta è ‘ni’. Giunti a questo punto dell’album chiunque si aspetterebbe una sterzata o una sferzata. Paradossalmente non accade subito con Great War ma la sua struttura, completamente immersa nei dogmi del power metal, sublima tutto ciò che si è sentito fino a qui e sembra invogliare a proseguire, certi che qualcosa cambierà davvero. Purtroppo, anche se il brano numero sette è idealmente il perno su cui gira tutta l’opera, non ne è altrettanto degna espressione. Anche i meno avvezzi si accorgeranno della forzatura su cui verte l’enfasi, studiata per esasperarsi proprio adesso, senza però restituire un contenuto all’altezza delle più rosee proiezioni. Menzione speciale per l’assolo di chitarra con sweep picking e tapping stile virtuoso (ma non eccessivamente).
Il sound centro europeo, oserei dire quasi ‘tedesco’, è il connotato primario di A Ghost In The Trenches. Tuttavia la voce, il rigo, la melodia che la denota, comincia a soffrire la poca flessibilità. I Sabaton riescono ad ovviare al problema, strumenti alla mano, con piccoli accorgimenti atti a smorzare le costanti ora eccessive. Più complesso il discorso per il comparto lirico, evidentemente.
Le allitterazioni sul ritornello di Fields Of Verdun sanno prendere di forza pure l’ascoltatore più distratto e, stavolta, il taglio leggermente aggressivo dell’interpretazione vocale fa il suo dovere smuovendo le acque il tanto che basta per destarsi dal torpore.
La tregua per l’udito sopraggiunge sulle fasi finali di The Great War. Sciaguratamente è solo un miraggio. The End Of The War To End All Wars parte sommessa ma riprende i giri dopo pochi secondi e quel violino finto sulle prime è un pungo in pieno volto mentre si dorme beati all’ombra di una palma. Il tono maestoso sul trafiletto in fanfara mi fa capire che, a due pezzi dalla conclusione, non ci saranno grosse variazioni di forma e prende piede il senso di immobilità di chi poteva osare qualcosina e non lo ha fatto avendone tutte le peculiarità.
L’esperienza si conclude con una cover: In Flanders Fields. Poema scritto da un militare canadese, tale John McCrae – morto durante la prima guerra mondiale – e messo in musica successivamente da Luc Wynants. Un inno contro la barbarie bellica che ha ispirato molti interpreti. Non fanno eccezione i Sabaton che ne ripropongono una versione canonica, senza macchia e senza lode, con voci femminili come da tradizione.
Qualcosa, alla fine, è cambiato.
La dura vita di un concept album di questo tipo.
Non tanto per la sceneggiatura, né per la regia, per il soggetto o per l’esecuzione, The Great War degli svedesi Sabaton ha la fortuna di essere appetibile e facilmente digeribile anche da chi non ama il genere epico del power metal. Il problema è che il concept perde mordente sotto il punto di vista musicale, proponendo soluzioni troppo simili a sé stesse durante i dieci, più uno, brani dell’LP. Un disco piacevole e coinvolgente che si arena parzialmente sulla spiaggia del ‘ridondante’. Da mordersi i gomiti.
Mario Aiello