I Tool risorgono dopo ben tredici anni grazie al loro quinto lavoro in studio. Fear Inoculum è stato pubblicato al termine dello scorso Agosto, anticipato dal singolo omonimo e un paio di anni di inspiegabile (col senno del prima) attività live dalla band.
L’imbarazzo della scelta: CD o Download Digitale?
Il disco si divide praticamente in due formati, distinguendo all’istante ricchi e poveri. Il primo è pensato per chi adora il feticcio, la materia e tutte le manfrine che si possono celare dietro. Un merchandising moderno ed attento ma forse legato a concetti già sorpassati. Diverse le varianti con contenuti esclusivi in base alla scelta, uno schermo video incorporato nel packaging e chi più ne ha più ne metta: brani contenuti, sette.
Tutto ciò posso capirlo, ma non riesco ad accettarlo, soprattutto per il costo esorbitante.
Il secondo formato, quello digitale, a fronte di un’irreparabile intangibilità cronica, restituisce al fidato fan ben tre canzoni in più da ascoltare. Ritengo abbia molto più senso, sotto ogni punto di vista.
Nella ‘versione estesa’, presa come riferimento, siamo di fronte a poco più di ottanta minuti di riproduzione. Questo aspetto sarà croce e delizia a seconda dell’approccio all’opera. Non tutto fila liscio come l’olio e l’ascolto potrebbe essere sottoposto a più sessioni. Cosa che non mi è mai successa per Ænima o Lateralus. Giusto per fare due esempi.
Antefatti storici: Fear Inoculum, tra abominio e diamante prezioso.
È bene precisare che i Tool non producono alcunché da ben tredici anni. Ovviamente ogni gruppo ha avuto periodi più o meno estesi di silenzi artistici. Partire prevenuti è sempre sbagliato, ma avere dei dubbi è sacrosanto. Fear Inoculum è al contempo un abominio terribile e un diamante prezioso. Sperando di non inimicarmi nessuno, mi spiego meglio. Lo faccio puntando l’occhio di bue sulla questione emotivo-concettuale, piuttosto che su quella puramente musicale, sulla quale si potrebbe scrivere tutto e il contrario di tutto pur restando coerenti.
Dal 2008 e fino al 2018 circa non si possono quantificare le voci, dirette o indirette, che abbiano anticipato la nascita di questo ultimo disco. Partendo dal chitarrista Adam Jones che in più interviste, sparse nel tempo, ha dato per certa la conclusione delle riprese audio inerenti a ciò che oggi conosciamo quale Fear Inoculum. Salvo farsi smentire costantemente, e con un certo astio, dal redivivo (ma per altri progetti) Maynard Keenan, voce e anima tormentata della compagine. Sullo sfondo, oltre ad una serie di non meglio definite questioni legali, le rare dichiarazioni degli altri due componenti: il bassista Justin Chancellor e il batterista Danny Carey.
Ora, ditemi un po’ voi se non basta questo a far girare le scatole anche al fan più devoto. Difatti il materiale che compone l’album, così come è adesso, nasce e cresce per almeno dieci anni con idee e tratteggi armonici/melodici che non si fa fatica a collocare temporalmente subito dopo il bello e fortunato 10.000 Days del 2006. Sarà anche per la scelta di farsi seguire dallo stesso team di producer che li hanno supportati per il loro penultimo lavoro.
Fatto sta che, a priori, i Tool ritornano con un ritardo quasi generazionale. Molti accoliti, un tempo ventenni, sono oggi padri o madri di famiglia, inseriti in un contesto del tutto diverso da quando si spaccavano le sinapsi con The Pot e Vicarious. Come ci si approccia in questi casi? Non lo so, ma le vendite e l’apprezzamento del pubblico, appena uscito il disco, hanno ripagato almeno le aspettative della band. Per quanto riguarda invece il piacere di chi è dalla parte ‘sbagliata’ del palco, vorrei poter muovere una piccola critica.

Fear Inoculum e i suoi dieci anni in ritardo.
Dopo i primi cinque o sei ascolti dell’intero album il mio io più recondito si è scisso in due metà. Entrambe ciniche e fin troppo critiche. Da una parte un ascoltatore deluso ma conscio e dall’altra quello incredulo e fuorviato.
Il punto è questo: se ti prendi tredici anni per far uscire un disco, devono esserci quantomeno ragioni di consistenza cosmica che giustifichino la scelta.
La conseguenza logica e basilare sarebbe pensare che si siano presi tutto il tempo necessario per consolidare idee coerenti al loro stile e metterle a punto fino a renderle perfette, magnifiche, indimenticabili. Allora lo comprendo, lo accetto, lo condivido. Mi ritroverei un capolavoro tra le mani alla fine.
Il risvolto meno immediato, invece, potrebbe essere quello che vede i Tool reinventarsi, cavalcare la già psicotica visione musicale del progressive metal che già li denota ed espanderla fino a inimmaginabili conseguenze. L’evoluzione di una sperimentazione precisa, mentale ed artistica. Anche in questo caso lo accetterei come manna dal cielo.
Il risultato è invece altrettanto duale. Fear Inoculum è sia un aborto che diamante prezioso. Lo ripeto ancora una volta. Qualcosa di entrambi i pensieri ipotetici identificati poc’anzi ha trovato la sua strada guadagnando spazio a macchia di leopardo tra le dieci tracce dell’LP. Il senso di incompiuto, però, a tratti è evidente. Sarà mica ‘colpa’ degli interpreti?
Tre personalità più una. Il limite umano (tendente ad infinito) di Fear Inoculum.
Questo contributo giunge a quasi un mese dalla pubblicazione del disco. È una condizione prevista e voluta. I primi giorni sono, e siamo, stati tutti inondati da centinaia di articoli e recensioni. Quasi tutte atte ad idolatrare i componenti della band, spesso con toni di assoluto integralismo quasi fossero divinità.
Anteposto ciò, vorrei provare a scrutare Maynard Keenan, Adam Jones, Justin Chancellor e Danny Carey senza la reverenza cieca e sorda che, comunque, hanno saputo conquistarsi a mani basse.
Partirei proprio con ‘l’intruso’, ovvero quel Maynard James Keenan ormai totalmente rapito dai suoi progetti paralleli: A Perfect Circle e soprattutto Puscifer. Lontano anni luce dall’alchimia sublime del passato, tra miscele malinconiche e detonazioni spurie. Troppo preso, forse, dall’attività dei due gruppi con cui negli anni di silenzio dei Tool ha collaborato maggiormente. La strada per arrivare a tale conclusione è indubbiamente lunga e personale, non mancano guizzi di alta scuola che in alcuni momenti della riproduzione rispolverano la memoria di un contesto capace di grandi cose. In fin dei conti si tratta sempre del buon Maynard.
Alla défaillance (diciamo così) vocale si contrappone la maturità di ruolo delle chitarre e del loro marionettista Adam Jones. Questi pare abbia trovato lo spazio ideale in cui muoversi, lasciandosi ad una ‘deriva’ controllata di iper psico-sonorità. A mio parere è lui il vero fuoco ardente dell’intero Fear Inoculum. Ci sono arie, intermezzi, interventi mirati, parti idealizzate, altre studiate, riff orecchiabili ed altri meno ma più strutturati. C’è di tutto e anche di più.
Parzialmente meno incisivi basso e batteria, almeno nel computo artistico che non sia la sola esecuzione. Ad ogni modo non mancano le individualità ritmiche di Danny Carey, al limite della scomposizione quantistica in termini di poliritmie ed affini, come non si può non sentirsi rincuorati quando le vibrazioni a poche decine di Herz di Justin Chancellor cominciano a viaggiarci nel corpo partendo dalle ossa.
La ricetta imperfetta per un prodotto ‘sublime’.
L’accezione del termine è chiaramente da ricercarsi nel concetto di ‘sublime’, tanto caro al mondo dell’arte e della letteratura. In poche parole: l’opposto di quanto la parola possa suggerire in modo banale; tendente alla magnificenza attraverso l’esperienza non ordinata, suscettibile all’io.
A questo vanno aggiunti alcuni appunti. L’attitudine dei Tool a manifestare stati psicologici impastati nei suoni e nella musica resta intatta ma, per certi versi, portata ai massimi livelli di coscienza attiva. L’ascoltatore si ritrova ora in momenti di assoluto ‘frastuono psicologico’, ora in spazi vuoti e solitari. La condizione di cui sopra è tratto distintivo del Maynard-pensiero, chi ne ha esperienza lo riconosce. Tuttavia, come dicevamo poco fa, molto è stato introdotto dal filtro creativo di Adam Jones che forse non si è mai trovato tanto a proprio agio come nella nebbia riflessiva di Fear Inoculum.
Al punto di partorire – come collettivo, mai come singoli – una selva di sonorità ‘psicotrope’ alle quali tutti risultano integrati, pronti ad eviscerarle fino ad estreme interpretazioni. Nonostante il recall troppo evidente, in alcuni frangenti, al lontanissimo e più vicino predecessore (10.000 Days) ma anche al capolavoro Lateralus, sebbene in minima parte. Un accorgimento necessario al fine di smorzare i momenti meno digeribili con una lieve sfumatura di orecchiabilità su riff predominanti e rigo di canto.
La chitarra, quindi, si fa predominante ma non per presenza: altalenante tra il rarefatto e l’ossesso. Sicuramente il taglio meno prevedibile ma più pregiato della composizione.
Come arrivare al dunque senza aver mai menzionato nemmeno una canzone dell’opera.
Che questo fosse un contributo concettuale era chiaro ai più. Internet è stracolmo di recensioni, anche molto accurate e ben scritte, circa l’ultimo lavoro in studio dei Tool. Non avrebbe senso spendere parole in quella direzione, anche perché ci sono personaggi che non attendevano altro da tredici anni. Li lasciamo al loro giubilo.
Il fatto si riduce a pochi spunti. Fear Inoculum è un disco dei Tool a tutti gli effetti, nel senso che niente ci può far pensare ad altro, nonostante le digressioni, e i crismi più diffusi della band sono tutti presenti: fasi di percussione, vena tribale su alcuni contrappunti, basso sempre intelligente ma un po’ meno invasivo (nel senso buono) del solito, riff di chitarra fino a perderne la cognizione, la voce di Maynard Keenan che fa capitolo a sé, ritmi scomposti, approccio progressive e malinconico ai brani e tutto il resto. Si aggiungono momenti di puro synth che potrebbero lasciare un sorrisino sconsolato sul volto di molti, oltre agli interventi melodici che richiamano sonorità asiatiche, ma senza entrare troppo nel merito. Sul resto ho detto sopra.
Perché dunque Fear Inoculum è un incompiuto? Dopo tredici anni di immenso hype ed attesa estenuante, è cresciuto il fronte di coloro che hanno sviluppato un’errata concezione circa la maturità artistica di una band. Per costoro pare sia sempre e solo una curva che porti a suoni e composizioni progressivamente più cupe, malinconiche e fumose. Grigie, tendenti al nero. Oltre questo limite, si dissolve tutto ciò che non fa parte del concetto Tool. Concetto vivo solo nella mente di chi li segue, non certo proposto da loro stessi. Credetemi, come stare in bilico su un filo sottilissimo tra il giorno e la notte. Per come è stato strutturato l’album, questa sovrastruttura non porta soluzioni.
La summa maxima di tale lavoro può piacere o non piacere e non si discute. Dal mio punto di vista, in seguito a non so più quanti ascolti, Fear Inoculum non è auto conclusivo come gli altri.
Tuttavia un tarlo ha cominciato a trapanarmi le connessioni neurali: Non è che l’LP rappresenta il canto del cigno di Maynard verso la band? Non un momento di rottura bensì una sorta di evoluzione, la prova generale che i Tool possano avere una seconda vita senza il peso specifico che il cantante ha da sempre imposto, spesso senza volerlo realmente, agli altri componenti.
Una suggestione lontana dalla realtà, al momento, ma sconvolge la deduzione che non sia così distruttivo un futuro ‘diverso’ per la compagine, anzi.
Mario Aiello