Watchmen, la serie: Come andare oltre l’eredità di un capolavoro

Quando si è iniziato a parlare di Watchmen, serie ambientata nel futuro creata da Damon Lindelof per HBO, c’era un certo scetticismo in giro. Si trattava dell’ennesima trasposizione rischiosa di un’opera di Alan Moore, e in particolare del capolavoro a fumetti già rimaneggiato dal controverso film di Zack Snyder

C’era però anche un’innegabile curiosità perché, se la storia originale racconta di un piano per salvare una volta per tutte il mondo dalla minaccia di un’apocalisse nucleare, era impossibile non farsi domande sul futuro all’indomani di quegli eventi. Tutti ci siamo chiesti se il piano di Ozymandias avrebbe avuto successo sul lungo termine, magari pensando che questo avrebbe potuto giustificarne l’immoralità. O se il ritrovamento del diario di Rorschach avrebbe posto fine a tutto.

Watchmen

La domanda nasce spontanea: Ozymandias ce l’ha fatta?

Più o meno. Il 2019 dell’ucronia ideata da Moore ci viene mostrato dalla serie come una specie di utopia liberal: la guerra fredda finisce con la pace fra le due superpotenze, l’amministrazione di Robert Redford sta provando a fare ammenda per la questione razziale tramite gli interventi economici detti ‘redfordations’, ci sono restrizioni sull’uso delle armi da fuoco per civili e polizia. Le prime puntate sono un lenta esplorazione di questo presente alternativo, alla scoperta delle conseguenze sociali e psicologiche del D.I.E. (Dimensional Incursion Event) del 1984 e dell’assetto del mondo visto dall’improbabile centro dell’azione a Tulsa, Oklahoma.

Un worldbuilding strepitoso, ricco di dettagli svelati poco a poco in una giostra di domande e risposte che passa attraverso i flashback sul passato dei personaggi e arriva oltre lo schermo televisivo con i dossier di Peteypedia.

Su questo palcoscenico, Lindelof e soci riescono a raccogliere lo spirito del fumetto e infonderlo in una storia diversa, che gioca con temi nuovi o guarda quelli classici da un altro punto di vista. A cominciare dalla riflessione sul rapporto fra uomo, maschere e società. Le maschere ora sono indossate da polizia ordinaria e detective, come la protagonista Angela Abar, aka Sister Night, o il sopravvissuto all’attacco di New York Wade Tillman, aka Looking Glass. Ma anche dal Seventh Kavalry, gruppo di suprematisti bianchi ispirati da Rorschach. Sono maschere ancora più integrate nei dispositivi di potere e uso della forza, cambiando la prospettiva della domanda fondamentale: “chi controlla i controllori?”.

Watchmen, potere e contraddizioni

‘Sotto il cappuccio’ riaffiorano però i conflitti e le contraddizioni, si gioca una riflessione sulle dinamiche di potere e controllo, mentre le distinzioni tra buoni e cattivi si assottigliano e si confondono come le macchie sulla maschera di Rorschach. Il 7h Kavalry è la risposta terrorista alle ‘redfordations’ di quell’America povera ed emarginata che ancora esiste, a rappresentare la disuguaglianza economica. Sono sostenitori della teoria del complotto basata sui diari di Rorschach, e quindi gli unici a riconoscere pubblicamente che la pace mondiale si regge su una menzogna. I poliziotti in maschera combattono i razzisti, ma lo fanno brutalmente, calpestando regole e diritti, e l’affabile capo della polizia locale è segretamente un suprematista.

Molto si gioca intorno alla questione razziale, e all’inizio sembra quasi un’enorme frecciatina a quella parte della fanbase di Watchmen che, come il 7h Kavalry, sembra aver preso per buone le idee destrorse di Rorschach. È invece una risposta credibile a chi accusa prodotti come Watchmen di essere schiavi del politically correct.

Una dichiarazioni di intenti su quello che la narrativa popolare può e dovrebbe fare, innestata su un racconto del razzismo negli USA di oggi e di ieri, con una grande attenzione per il tema della legacy, dell’eredità culturale nel contesto delle comunità oppresse.

Una storia nuova con personaggi inediti era necessaria per abbattere i preconcetti e catturare gli spettatori . Per più di metà serie, le uniche vecchie conoscenze sono Ozymandias, perso fra esperimenti folli e tentativi di fuga in un mondo surreale, e una disillusa Laurie Blake, l’ex eroina Silk Spectre, ora a caccia di vigilantes per l’FBI (una spettacolare Jean Smart). 

È solo l’inizio. Come in una reazione chimica ben studiata, gli elementi si accumulano e iniziano a reagire, finchè all’improvviso la storia dello show collassa in quella del fumetto, o viceversa.

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La centralità degli episodi 6, 7 e 8 nel racconto di Watchmen

Letteralmente: l’episodio 6 ci trasporta in un fortissimo racconto in bianco e nero alle origini del mito fondante di Watchmen. Ci rivela che il misterioso Will Reeves, nonno di Angela, è in realtà Hooded Justice.

Il vigilante incappucciato che ha dato inizio all’epopea delle maschere non è il solito uomo d’azione bianco, magari facoltoso, ma un ragazzo nero vittima di uno dei più grandi massacri razzisti della storia USA: quello del 1921 a Tulsa. Will cerca giustizia nel distintivo, come il suo eroe dei film muti, ma scopre che il dipartimento di Polizia è un covo di razzisti e decide quindi di indossare il cappuccio per farsi giustizia e inseguire le tracce di Cyclops, un’organizzazione segreta simile al KKK. Il tutto nascondendo il colore della sua pelle, perché il mondo del 1938 non avrebbe accettato un eroe nero.

Un afroamericano nei panni di un bianco

Di questi tempi, sostituire un personaggio percepito come bianco con uno afroamericano vuol dire, nella migliore delle ipotesi, scatenare le ire di una parte dei fan. Nella peggiore, fare il gioco delle grandi case di produzione che cercano di rifarsi una verginità pro-diversity in maniera spesso forzata.

Prendendosi questo rischio (per ben due volte), Lindelof è riuscito ad entrare in alcune delle problematiche della figura dell’eroe in costume e dei media che lo hanno raccontato, portandoci al centro della questione della rappresentazione degli afroamericani e del bisogno di diversity. Hooded Justice diventa così il simbolo di tutto il rimosso storico del razzismo a stelle strisce, che adesso ritorna prepotentemente a chiedere il conto per orrori come quello di Tulsa. Anche pretendendo quello spazio nella narrativa popolare che infastidisce tanti commentatori sul web, a cui va diretta la stoccata meta-narrativa della serie.

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Suprematismo intriso di vittimismo

Nella puntata 7 scopriamo infatti che dietro il suprematismo violento del 7h Kavalry c’è il vittimismo dell’uomo bianco che, per recuperare i privilegi che sente minacciati, arriva alla hybris di voler uccidere Dio e prendere il suo posto. 

Il Dio da sacrificare è ovviamente il Dr. Manhattan, che nel grande plot twist della serie scopriamo vivere a Tulsa, sotto le mentite e inconsapevoli spoglie di Calvin Jelani.

Qui la serie fa una richiesta enorme ai fan del fumetto, chiedendogli di trovare credibile che Jon, dopo aver abbandonato la Terra e l’umanità, “stanco di questo mondo, di questa gente”, sia ritornato per amore e abbia scelto di rinunciare alla consapevolezza della sua identità e dei suoi poteri. 

Ma per capire le azioni del Dr. Manhattan, serve qualcosa che provi ad entrare nella testa di un essere che percepisce il tempo in maniera simultanea. Lo fa la puntata 8, ‘A God walks into Abar’, un racconto dislocato su più piani temporali attraverso cui riviviamo la vita del Dr. Manhattan dal finale del fumetto fino all’apparente morte. Tutto accade perché deve accadere, anzi, è già successo. Più che mai, il Dr. Manhattan è “solo un burattino che vede i fili.

Cosa ci riserva il finale?

Alla vigilia del season finale, sono tante le domande e le questioni rimaste in sospeso a cui lo show deve dare una soluzione soddisfacente nel limitato minutaggio dell’ultima puntata.

Era difficile immaginare che ‘See how they fly’ sarebbe riuscita in un’ora a chiudere buona parte delle questioni in sospeso, rispondendo a quasi tutte le domande sul piano del Senatore Keene, il settimo cavalleggeri, l’epopea spaziale di Ozymandias e il piano di Lady Trieu, che si rivela essere la vera antagonista.

Inevitabilmente, parte del finale si riduce alla lotta per fermare il piano malvagio del cattivo, con qualche punta di sentimentalismo eccessiva, mentre l’ambiguità morale costante si scioglie in quello che è tutto sommato un lieto fine, eticamente chiaro.

Come spesso capita, non è la conclusione la parte più entusiasmante del racconto; ma era difficile pretendere di più di un finale che rispondesse a tutte le domande e desse un senso a tutti i dettagli, dimostrando di padroneggiare il meccanismo ad orologeria che caratterizzava, dal punto di vista estetico e narrativo, il Watchmen di Moore.

Lasciando anche non una, ma due porte aperte e quel senso di ‘e ora?’ che riempiva il finale del fumetto.

Watchmen, una seconda stagione? 

Al momento, su di un eventuale stagione 2 ci sono voci contraddittorie. 

Se anche la serie Watchmen dovesse finire così, ci avrebbe già insegnato come raccogliere l’eredità di un capolavoro e andare anche oltre. Come un buon remix, la serie di Watchmen conduce linee melodiche e di basso familiari in territori nuovi, inserendole in un contesto accattivante e formalmente impeccabile, dalla recitazione alle fantastiche musiche di Trent Reznor e Atticus Ross. Per una storia che molti considerano chiusa nel 1984 e intoccabile, è già un ottimo risultato.

 

Sergio Sciambra

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