Dov’è il mio corpo?, un film d’animazione non per tutti

Candidato agli Oscar 2020 come miglior film d’animazione, Dov’è il mio corpo? è un dramma francese diretto da Jérémy Clapin e tratto dall’opera “Happy Hand” di Guillame Laurent.

dov'è il mio corpo

Ambientato nella Parigi degli anni ’90, il film narra la storia di Naoufel, un ragazzo che sognava di diventare musicista ed astronauta e che, dopo la morte dei genitori, ha dovuto intraprendere strade più impervie vivendo un’adolescenza difficile e precocemente segnata dalla solitudine.

A tessere l’intreccio della storia, segue in parallelo il racconto di una mano mozzata che, partendo da un ospedale in cui era ibernata, attraversa le strade e i sobborghi parigini in cerca del suo corpo.

Quello che all’inizio potrebbe dar l’idea di un film noioso e pesante, si rivela essere un’occasione di cinematografia pura. Dialoghi, musiche, animazione: tutto concorre a portare lo spettatore in una completa full immersion di 81 minuti. 

Dov’è il mio corpo?

 

La composizione organica del prodotto è resa possibile dal velo malinconico che lo avvolge dall’inizio alla fine, tentando (e riuscendoci) di rendere partecipe lo spettatore anzitutto a livello uditivo. È particolarmente interessante, infatti, osservare come la fonetica percettiva giochi un ruolo fondamentale nel film.  Ogni frame è dettato da musiche (di Dan Levy) che ne costituiscono una vera e propria colonna portante, senza la quale parrebbe decadere l’intero intento filmico. Questo potrebbe spiegare il motivo della presenza ridotta dei dialoghi.

A mio avviso, le poche battute scambiate tra i protagonisti diventano anch’esse suoni che non si confondono con i  classici dialoghi che ci aspetteremmo. In questo dramma, infatti, la presa della parola di uno dei personaggi diventa un vero e proprio evento che cattura inevitabilmente l’attenzione. Un fatto che genera una inconsapevole riflessione su quel “suono” che smette di essere il “rumore” di una parola ma ne segna una densa unità tra significato e significante.

Nulla di eccessivamente complesso se si pensa che la trama stessa segue la medesima logica: un’analisi sull’essere ridotta al significato più profondo dell’esistenza umana. Così, gli eventi del film portano ad osservare la precarietà e l’insicurezza del presente che talvolta privano l’uomo perfino della sua umanità – come nel caso della mano mozzata – confinandolo in una situazione paralizzante e di apparente impotenza verso il destino. Come del resto sottolineato dal protagonista Naoufel a Gabrielle, la ragazza di cui si innamora.

La bruta realtà dei fatti sfocia dunque nell’urgenza di una ricostruzione fisica (per la mano) e morale (per Naoufel) che definisce il senso finale del film, conferendogli un significato nobile intriso di filosofia esistenziale, letteratura ed elevata qualità cinematografica.

Sarà per questo che il 10 febbraio alle 02:00, aspetteremo ansiosi di sapere se la nomination dell’Academy gli varrà la vittoria.

Noi, nel frattempo, incrociamo le dita.

 

Santina Morciano

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