Sì, il titolo di questo articolo è un riferimento neanche tanto velato ad un libro scritto un (bel) po’ di anni fa da Vasco Brondi. Un libro che ho acquistato, approcciato con interesse…e che non ho mai finito. Ma non è questa la storia triste del giorno.
Il riassunto delle puntate precedenti è ben noto: siamo segregati in casa, è una continua gara di dirette social dove vince chi ha la linea internet migliore, il pensiero positivo dilagante non ammette altra forma di vivere quotidiano al di fuori della produttività (nonostante noialtri peroriamo la causa del “posso stare giù e non devo sentirmi in colpa”) e questa sit-com grottesca sta riscuotendo successo al punto tale da essere stata confermata per un’altra stagione. Volenti o nolenti, tutti sul divano fino a Maggio.
Un conflitto invisibile
Ci hanno detto in molteplici occasioni che “siamo in guerra”, ma io proprio non riesco ad accettarla questa definizione: una pandemia è una pandemia, una guerra è tutta un’altra cosa. Ma visto che “siamo in guerra” è scattata dentro di me una riflessione che mi ha portato a ragionare sui risvolti che dovrebbero concretizzarsi da qui a breve, quando “la guerra” sarà finita o comunque meno serrata.
Sul piano sanitario ed economico non deve essere certamente il sottoscritto ad erudirvi, c’è gente più competente, ma dal mio punto di vista ho sviluppato un personalissimo parere riguardo alle possibili ripercussioni sul piano socio-culturale. Mi spiego: ogni “guerra” porta una contrazione che evade in fase di rinascita e (ri)costruzione; nella dimensione creativa, dopo le due più recenti guerre mondiali l’Italia ha vissuto importanti momenti cristallizzati nell’arte e nel cinema. La guerra del Vietnam ha fatto scattare la molla di un apparato controculturale talmente eterogeneo da radicarsi nella musica, nelle arti visive e nell’editoria. Sono esempi espressi in modo sommario, ma il ragionamento alla base è questo: la società quando attraversa una fase difficile vede la luce in fondo al tunnel anche (se non soprattutto) grazie alle espressioni creative, amplificando la propria sensibilità verso questa specifica attitudine umana.
Il mondo nel giro di pochi decenni è cambiato sotto vari aspetti, e questo è assolutamente innegabile. Mercato e logica da business influenzano maggiormente l’originalità, cercando di ingabbiarla in dinamiche di vendita del prodotto ben note agli addetti ai lavori. Ne conseguono troll esemplari (in quest’ottica, Bello Figo è un fuoriclasse) oppure tentativi di cavalcare l’onda per catalizzare l’attenzione (e ne abbiamo parlato in toni non proprio esaltanti).
Dopo un mese di lockdown, con buona parte delle industrie creative nel Bel Paese ferme ed il comparto discografico che cerca di centellinare le cartucce da sparare da qui fino alla ripresa ordinaria delle attività, si torna al punto di partenza e resta una domanda: cosa racconteremo di questa cazzo di quarantena?
Cosa possiamo aspettarci
Il serio rischio è che la spinta verso qualcosa di veramente nuovo non avvenga: da una parte la collettività è intorpidita (almeno per quanto concerne la stragrande maggioranza) da migliaia di distrazioni rendendo di fatto impossibile un ragionamento del tipo “hey, ci riprendiamo la vita dopo due mesi senza un abbraccio o un sorriso in compagnia. DEVE esserci qualcosa che ci rappresenta ed identifica in questo momento”; dall’altra sponda della barricata i processi per concretizzare qualcosa di originale sono troppo declinati in analisi di mercato, ricerca di parole chiave e stilemi finalizzati a far riconoscere in un’opera inedita questo o quel target.
L’offerta va da una parte, la domanda non sa che pesci prendere.
Quindi prepariamoci a mesi di testi di canzoni, film e libri con la presenza imperante di parole e tematiche quali “quarantena”, “coronavirus”, “ti penso, quanto ti penso, facciamo una videochiamata” e via di questo passo.
Ma non ci sarà nessun Dadaismo, Neorealismo o Flower Power ad attenderci.
E probabilmente, tutto questo ce lo meritiamo.
Giandomenico Piccolo