Doveva uscire lo sorso marzo nelle sale ed invece dal 28 maggio è disponibile, in esclusiva su Raiplay, Bar Giuseppe, film scritto e diretto da Giulio Base.
Girato per lo più a Bitonto, si presenta come una rivisitazione in chiave contemporanea della storia biblica che ha come protagonisti Giuseppe e Maria: quando Giuseppe ha accolto Maria con in grembo un figlio non suo e prima ancora quando l’ha accolta con fare di un padre, più che di buon marito, vista l’età.
Alcuni ferventi credenti e conoscitori della bibbia smentirebbero. L’età dei due, infatti, non viene mai precisata dalla “stampa ufficiale” della Chiesa. Questo particolare viene fuori dal racconto apocrifo del Protovangelo di Giacomo (capitoli IX-XVI). Che sia ufficiale o meno, nell’immaginario di credenti e non, Giuseppe rimane l’uomo saggio con la barba, che con pazienza e bontà si prende cura di chi ha al suo fianco senza troppi pregiudizi. Ed è proprio questa figura che il film mette in risalto.
Bar Giuseppe, “la storia delle storie”
L’idea non a caso nasce dal libro del Cardinale Gianfranco Ravasi dal titolo ‘Giuseppe’.
Il Giuseppe di Base è interpretato da un ‘ateo sfegatato’ come (così si definisce) Ivano Marescotti, che ha apprezzato la storia dell’uomo, prima di tutto. È questo alla fine ciò che conta. Infatti, è bene precisare che il film non ha assolutamente intenti religiosi. Piuttosto, si presenta come una storia molto realistica.
La trama
Giuseppe ha perso da poco la moglie e, con due figli adulti che conducono ognuno la propria vita (non del tutto esemplare), si ritrova a gestire il bar di una stazione di sevizio da solo. Testardamente, decide di portare avanti l’attività e assume, così, la 17 enne africana Bikira (Virginia Diop) per farsi dare una mano. I due finiscono per ritrovarsi sposati di fronte lo sgomento del paese, dei figli di lui e della famiglia acquisita di lei.
Se non lo si sapesse in anticipo, la storia non è subito riconducibile a quella biblica, a parte per alcuni particolari che vengono fuori nel corso di essa: Bikira in swahili significa ‘vergine’, Giuseppe come hobby fa il falegname, il bambino in attesa è figlio, di fatto, di ‘nessuno’.
Giuseppe è un uomo silenzioso e profondo. Senza pregiudizi, difende, seppure con il suo silenzio, l’immagine razzista che i suoi clienti hanno nei confronti dei migranti, anche loro suoi clienti. Poco interessato al pensiero comune, sente di fare del bene e lo fa, in cambio semplicemente di affetto. Lo vediamo, comunque, legato al pensiero della moglie defunta. Paziente, soprattutto con i suoi figli, i suoi silenzi e la sua operosità lo identificano come un uomo buono ma non un santo. Di fronte all’incertezza e la delusione del tradimento agisce come tutti farebbero: scappa e non accetta passivamente.
La famiglia come spazio d’umanità
Il film, lento, ci lascia un po’ in sospeso sulla realtà dei fatti. Sappiamo solo che Giuseppe, ancora una volta, si abbandona alla sua bontà e forse alla debolezza di uomo. D’altronde, fin dall’inizio si percepisce un legame profondo tra i due, che secondo il senso comune è difficile comprendere. Un rapporto più di empatia e sostegno reciproco che di puro amore. Un rapporto familiare più che coniugale.
L’ambientazione periferica, piuttosto solitaria, è in sintonia con il mood dei personaggi e della storia. È una storia semplice, senza troppe pretese, si ispira al passato ma è molto attuale. Parla di accoglienza e tratta anche molto bene il tema del pregiudizio. Se ci calassimo nella realtà lontana in cui Giuseppe e Maria vivevano non ci verrebbe poi tanto difficile pensare a quello che si poteva dire su di loro, sulla loro condizione. Non possiamo nemmeno mai sapere qual era davvero la loro condizione, quello che loro realmente vivevano; quello che si sono e non si sono detti. E chissà se non fossimo stati in prima linea noi stessi a condannarli.
Alla fine ne vien fuori una figura di un uomo che, seppur senza l’aureola di santo, è (ugualmente) esemplare o quanto meno umano.
Claudia Avena