Black Flowers Cafe – Flow: nuovo LP, qualche idea dal passato

I cosentini Black Flowers Cafe festeggiano i dieci anni di attività musicale presentandosi con un nuovo album. Il disco si intitola Flow ed è in uscita il 29 Maggio per La Lumaca Dischi.

A questo giro i quattro calabresi, tra i più europei d’Italia in quanto a sonorità, decidono di cavalcare l’onda della new wave da loro ormai ben rodata: quella senza esasperazioni di pseudo spazialità e dal piglio un po’ “indiependente” e un po’ pop. Dieci canzoni più una, l’introduzione, che non solo inglobano quasi per intero il precedente lavoro formato EP, Islands (2017), ma riportano in auge anche un pezzo di vecchia data quale Up The River. Nonostante le varie reissues, Flow può gioire di un effetto loop che vedremo più avanti, senza sbandamenti, senza decontestualizzazioni. A ragione di ciò le sensazioni di “nostalgia di un passato reale e immaginato” descritte dagli autori, si percepiscono tutte.

Black Flowers Cafe: dieci anni di carriera culminati nella stesura dell’album Flow.

Prima di lanciarci a capofitto nella solita pratica di analisi del disco canzone per canzone, vale la pena rispolverare brevemente le pubblicazioni della band. Repetita iuvant. Formatisi nel 2010, sfornano due EP nel giro di ventiquattro mesi, o giù di lì. Prima Rising Rain del 2011 e poi Falling Ashes l’anno successivo. Non contenti, nel 2012, i Black Flowers Cafe daranno in pasto al grande pubblico anche il loro LP omonimo di debutto.

Da questo momento in poi è puro accrescimento stilistico: il singolo Mintaka ii (2015) e il già citato EP Islands, fino a raggiungere Flow.

Il “Flusso” terapeutico delle premesse essenziali. Il chirurgico benvenuto all’ascoltatore, cui spetta onore ed oneri di un approccio in totale autonomia, scevro da qualsivoglia preconcetto indotto. Tradotto in musica diventa “Flow”.

Può sembrare una pratica comunemente sdoganata quella di fornire al pubblico quelle poche nozioni di giustezza sull’opera. Tutt’altro. Sempre più spesso al giorno d’oggi chi si avvicina ad un disco viene bombardato preventivamente, al fine di essere indottrinato e privato del libero arbitrio. Oddio così è troppo anche per un complottista fatto e finito. Diciamo che i Black Flowers Cafe hanno saputo fornire quel tanto che basta per un ascolto consapevole e soprattutto privo di piedistalli edificati barbaramente qua e là. Doveroso sottolinearlo.

Siamo dunque al binomio Intro più Keep It Out. Sin dalle prime battute un orecchio analitico fisserà sulla sinusoide musicale due cose: il charleston in levare che fa molto The Killers degli anni buoni; i riverberi profondi sulla sei corde che invece, e con sapienza, rimandano alla spazialità peculiare del genere ma non la accentuano fino agli intorni algebrici di infinito. Non a caso la menzione alle stelle verrà più volte ripetuta nell’LP. Cosa buona e giusta. Il resto è decretato dai fendenti sinestetici volti a trasformare immagini in suoni, coadiuvato da un’esecuzione in punta scalpello. I toni cupi della lirica si ritrovano in musica, nonostante il ritornello catchy, e la circolarità delle figurazioni (notte, stelle, sogni) troveranno una sublimazione inaspettata seguendo l’andare di Flow.

Who stempera parzialmente la tendenza, se si può parlare di pattern già dalla seconda canzone. Col senno del poi la risposta è sì. Caos, disillusione e negazione della fanciullezza sono tra le sottolineature più consistenti che si possono ritrovare nel testo. Il tutto accompagnato da un arrangiamento pressoché “arcobalenato”. Refrain carico di citazioni non sempre puntuali, anzi. Ritrovo confuso di frasi e parole alle quali dover/voler trovare un inquadramento che vada “oltre” è puro esercizio di stile non necessario. Non ne inficia il risultato comunque notevole.

Out Of Breath. Il silenzio è il vero protagonista della storia, almeno per fattezze prosopopeiche. Il tema è quello dell’incomunicabilità. Non serve aggiungere altro. Piccolo appunto su una questione morale italica: non tutto ciò che viene suonato in modo “ampio” o con grande “ampiezza” è da considerarsi automaticamente wave o meglio new wave. Iattura afflittiva esistente solo nel Belpaese. In Europa sono più aperti e hanno bisogno di molti meno incastri logico strutturali per accettare a monte una nozione di questa natura.

Per lo stesso motivo non basta a Kinshasa la lieve vena tribale delle percussioni per potersi immedesimare nel principio di contaminazione tra generi. I suoni bucolici puntellano definitivamente la sagra dell’ovvietà. Tuttavia la manna dal cielo cade fiera e copiosa con l’ingresso in scena delle chitarre. La sovrastruttura stilizzata si discioglie e i Black Flowers Cafe centrano il punto della canzone, grazie anche al lavoro di presa ritmica e armonica del basso.

Black Flowers Cafe

Black Flowers Cafe: La scelta di riportare l’EP Islands nel nuovo disco Flow.

Alla posizione sei e sette troviamo due delle tre canzoni già conosciute con l’EP Islands del 2017. La contaminazione vista in Caribe e più vecchia di tre anni rispetto alla precedente Kinshasa pare riuscita meglio. Come? Bisogna dire grazie ad un arrangiamento meglio definito ed accurato, che coinvolge tutti gli strumenti. La sfumatura ha carattere ma non si impone. L’aria sospesa di certe ambientazioni è tangibile. Già nota anche la successiva Never Trust Me. Il soggetto astronomico non abbandona mai realmente la compagine cosentina. Il vuoto, ancora il silenzio, sono solo un paio delle condizioni imprescindibili trovate riproposte intimamente nel testo del brano. Ora sospinte da iconici stati di isolamento, o presunti tali. Ritrovare il senso di sé può diventare una vera e propria lotta all’ultimo ricordo positivo. Se qualcuno ha reminiscenze dei francesi Phoenix, non si affligga, è normale.

Cocktail Party è una canzone che in pochi minuti rompe la biunivocità bigotta che prevede, senza contraddittorio, ovunque ci sia un “Mida”, da qualche parte deve esserci pure il complementare oro. E viceversa. La malsana idea che tutto sia scontato viene zimbellata nella canzone che, come da titolo, ripropone una certa sobrietà riuscendo con facilità disarmante a far vivere all’ascoltatore l’aria crepuscolare di un cocktail party al tramonto. Il fade out delle tonalità cromatiche dal viola intenso al rosso spento le vedi, ma in realtà le stai sentendo.

Up The River è in qualche modo il progenitore i Kinshasa. Quest’ultima, pur non essendo forte come o al pari di altre, riesce comunque a veicolare buona parte delle improbabili congetture sulla stesura sua e dell’intero Flow in generale. Up The River proviene dal passato, nemmeno tanto vicino, e rappresenta uno dei punti più alti dell’opera. Paradosso? Eppure ha senso.

La terza ed ultima ripescata da Islands è January. Qui i Black Flowers Cafe spingono quel tanto che basta sul pedale della melodia, comunque in totale reprise da Never Trust Me, e tanto basta per portare la pagnotta a casa. Molto orecchiabile il rigo della chitarra che trova effervescenza solo dalla seconda metà in avanti.

Stage One ricuce su sé stessa la fruizione circolare del disco. Lo fa con auto citazioni e un certo peso specifico in termini di interpretazione. Interessante il disegno di mettere in loop lo stesso LP riallacciandosi nel finale, col principio dell’introduzione. E via di nuovo a riascoltare tutto senza affanno.

Black Flowers Cafe

Talvolta il troppo storpia.

Ai Black Flowers Cafe, nei due lustri di vita del progetto, non è mancata esperienza maturata e crescita creativa. La granitica coerenza con la quale hanno scelto di edificare il secondo album Flow è croce e delizia dell’opera.

Da una parte il filo conduttore comune alle dieci più una canzoni del disco è estremamente ben chiaro e confortante, per alcuni aspetti. Proponendo un ascolto privo di sobbalzi di qualsivoglia matrice. Di quelli che davvero lo riascolti tutto in loop per due o tre volte senza accorgertene. Dall’altra parte invece, l’indispensabile altalena dinamica ed emotiva resta ad appannaggio esclusivo della comprensione interpretativa dei testi o dell’immedesimazione personale a livello musicale. Una mancata trasversalità che potrebbe sottrarre qualcosina in termini di assoluti al duro lavoro dei quattro componenti del gruppo. In tal senso avrebbero potuto osare di più, senza snaturarsi, avendone non solo i requisiti ma anche le capacità.

Ce lo facciamo piacere così, sperando che da qui al prossimo non figurino troppi intervalli tra EP e singoli.

Mario Aiello

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