“Califfato” è una serie tv svedese originale Netflix diretta da Goran Kapetanović e creata da Niklas Rockström e William Behrman. In otto episodi di 30-40 minuti l’uno, si racconta la costruzione di un attacco terroristico in Svezia prendendo spunto da episodi realmente accaduti in Europa.
CALIFFATO: LA TRAMA E IL CAST
Fatima (Aliette Opheim) è una poliziotta svedese che, non fidandosi della sua squadra, decide di seguire una pista da sola con l’aiuto del collega Jacob (Marcus Vogeli) per cercare informazioni su date, orari e luoghi dell’attentato. La sua fonte d’informazioni è Pervin (Gizem Erdogan), una giovane madre di origini siriane costretta a lasciare la Svezia e a seguire il marito Husam (Amed Bozan), che collabora nell’organizzazione terroristica con sede a Raqqa.
Contemporaneamente, il corpo di polizia lavora allo stesso fine ma indaga sui terroristi presenti nel territorio svedese. Tra loro, Ibbe (Lancelot Ncube) detto “Il viaggiatore” deve assicurarsi che l’attentato non abbia intoppi. È lui che farà in modo di convertire alcuni svedesi alla religione islamica, di minacciare degli uomini di origini siriana in cambio di alcuni favori e intrappolerà delle giovanissime ragazze per reclutarle nell’ISIS. Le vittime del suo gioco saranno Sulle (Nora Rios), la sua migliore amica Kerima (Amanda Sohrabi) e sua sorella Lisha (Yussra El Abdouni).
Califfato: Voci femminili per raccontare la realtà
Tra i numerosi e sempre più crescenti teen drama, la piattaforma streaming Netflix riesce anche ad inserire prodotti qualitativamente migliori e adatti ad una fascia d’età in grado di interpretare, decodificare e attualizzare sottotrame e messaggi non immediati.
È il caso, ad esempio, di Selfmade, Unorthodox e Califfato: tre serie drammatiche e disarmanti che, pur mostrando situazioni molto diverse tra loro, hanno un denominatore comune: la descrizione della drammaticità del contesto vero (non finzionale) è affidata alle voci di donne, donne comuni.
Donne come Fatima, poliziotta il cui unico credo è la divisa invisibile del suo mestiere. La necessità di sicurezza della società la porta ad andare contro i protocolli istituzionali ma non abbandona mai la sua buona fede. Come la madre di Sulle e Lisha che, al pari di tante persone emigrate, sposa a pieno la libertà di scelta decidendo di rinunciare alle tradizioni del Paese d’origine per affermarsi.
O come Pervin, che mette a repentaglio più volte la sua vita per salvare se stessa, sua figlia e una sconosciuta da un presente che non assicura nessun futuro. Non accetterà di essere l’oggetto sessuale di un uomo che non è il suo e che arriverà ad uccidere. Pervin è il simbolo di una fervida lotta silenziosa e continua che senza grida e gesta plateali, si fa spazio per assicurare un’ora in più di vita come donna e non come oggetto.
Ed infine come le adolescenti scontente del presente ed entusiaste di tutto ciò che non possiedono. Ragazze troppo piccole per distinguere la verità dai falsi sogni e per questo facilmente manipolabili. Sulle, Lisha e Kerima rappresentano quelle donne comuni che vivono in Occidente e che sono attratte dai video che girano in rete, dalla propaganda islamica che promette una vita migliore e che può essere ottenuta solo seguendo i precetti della religione.
Una serie TV tra il thriller e il documentario
Dalle indagini condotte dall’Europol, l’Osservatorio di A-Azhar e l’Università americana George Washington, il ruolo svolto dalle donne nel Califfato Islamico non è da sottovalutare. Esse sono delle rotelle importanti per il corretto funzionamento non di un semplice ingranaggio ma di una vera e propria macchina da guerra. Il lavaggio del cervello operato dagli integralisti islamici ha lo scopo di rendere le donne fiere, in tutti i sensi.
Infatti, accanto alla volontà di affermazione, di fierezza nell’essere islamiche e custodi delle loro origini, al punto da voler rimanere in luogo anche a costo di diventare merce (Lisha, ad esempio), vi è il lato oscuro della medaglia.
Altre ragazze una volta diventano delle fiere, delle belve che uccidono e si uccidono. Kerima è l’emblema dell’ingenuità adolescenziale che non riesce a distinguere la verità neanche quando viene salvata dall’esodo che l’aspettava a Raqqa. Kerima è invaghita di un mondo che non esiste perché quello che ha sotto gli occhi le ha già fatto troppo male.
Come tante altre ragazze obbedisce all’integralista Ibbe e si fa esplodere durante un concerto. Si renderà conto della trappola solo grazie alla sua migliore amica Sulle, che sceglierà di collaborare con la polizia. Ed è proprio Sulle ad essere tra i personaggi più incisivi della serie tv. Anche lei cambierà pensiero, si scontrerà con la famiglia d’origine e rinuncerà alle libertà che la società occidentale le garantiva.
Il pensiero islamico radicalizzato nelle donne
Sulle è l’emblema di un pensiero islamico radicalizzato nella mente di troppe persone che ancora oggi, nel 2020, assumono posizioni radicali sull’11 settembre e sui vari attentati degli ultimi anni. Non si tratta “solo” di ignoranti ma di gente acculturata, presente nelle aule universitarie da un lato o l’altro della cattedra. E quindi forse sì, ignorante ma nel senso che ignora la verità sostituendola con una contronarrazione.
Ecco quindi che i tratti di una serie tv thriller (la scenografia sporca, l’interazione empatica personaggio-spettatore, l’approfondimento sulle protagoniste) vengono accostati e quasi superati dalla dimensione informativa che le vicende si propongono.
Episodio dopo episodio sorgono spontanee le domande “Dove termina la finzione? Accadono veramente queste cose?”.
Sì, queste cose accadono realmente e se è pericoloso che i media ne parlino poco, è da apprezzare che ci sia una serie tv in grado di raccontare la sofferenza della radicalizzazione islamica subita dalle donne. Magari sarà l’occasione giusta affinché la gente si informi su una piaga della società che non è frutto della fantasia degli sceneggiatori, ma tutt’altro.
Santina Morciano