Oggi “celebriamo” i venticinque anni di uno degli album più belli e tristi allo stesso tempo, ma soprattutto sottovalutati, della storia della musica mondiale. Il 21 luglio del 1995 Elliott Smith pubblicava un lavoro con il titolo corrispondente al suo nome d’arte. Non si tratta del disco d’esordio, ma di quello che ha portato l’artista alla ribalta con il suo progetto da solista.
Prima di poterne parlare adeguatamente è necessario conoscere il suo creatore.
STEVEN PAUL SMITH
Steven Paul Smith diventa Elliott Smith molto presto. Dopo un’infanzia e un’adolescenza travagliate ai limiti dell’aggettivo stesso, l’artista inizia a farsi chiamare “Elliott” con la nascita del suo primo progetto musicale: gli Stranger Than Fiction. Si sposta continuamente in varie zone del suolo statunitense, ma il ritorno repentino a Portland, nell’Oregon, sancisce nel 1991 l’inizio degli Heatmiser, band con cui registra tre dischi.
Il gruppo si scioglie nel 1996, ma nel frattempo il musicista ha già intrapreso in parallelo la carriera da solista, incidendo nel 1994 Roman Candle e nel 1995 Elliott Smith. Il successo prosegue con lavori strabilianti come Either/ Or o XO.
Il 21 ottobre del 2003, però, è una data che vorremmo ancora oggi cancellare dal calendario. Quel giorno, il corpo di Elliott Smith viene trovato senza vita nei pressi di Los Angeles. Le dinamiche non sono mai state ben definite. Ciò che resta ai fan sono sei dischi di qualità elevata e un personaggio che, a suo modo, ha creato un nuovo spazio identificativo nel panorama musicale.
Non sarebbe mai successo senza il disco che l’ha portato, per l’appunto, alla ribalta: Elliott Smith del 21 luglio 1995.
ELLIOTT SMITH, 21 LUGLIO 1995
Il disco si apre sulle note di Needle in the Hay, un pezzo che definirlo struggente è dire veramente poco. Si entra in un mondo di certo più incisivo rispetto all’album d’esordio del 1994.
Un universo parallelo è pronto a farsi spazio nelle camerette degli ascoltatori. Potremmo quasi chiamarlo “spettrale”. La caratteristica principale su cui si basa questa canzone – e il suo intero percorso – è un cantato quasi sussurrato, forse per la mancanza del coraggio di esprimersi in prima persona. Ma ciò non esclude il tentativo di mostrarsi, con una chitarra dolce e straziante, che accompagna quel sussurrato.
Si percepisce che il viaggio che stiamo percorrendo è autobiografico, ed è proprio per questo che ne restiamo colpiti nel profondo.
Le canzoni che seguono uno dei brani più famosi di Smith conservano lo stesso theme, ma i suoni diventano sempre più delicati. Con la cara Clementine sembra che i colori si siano resi meno tetri. L’ascoltatore che passa in rassegna il disco si sente cullato, ma soprattutto compreso.
Il ritmo prosegue incalzante e leggermente più movimentato in Southern Belle. Alphabet Town e St. Ides Heaven, invece, riprendono in modo impeccabile il mood del singolo d’apertura.
Verso la chiusura di questo racconto c’è The White Lady Loves You More, che forse è il pezzo più contemporaneo dei tempi di cui si sta parlando ed è quello che dà l’ispirazione a tante band postume. Sebbene queste siano lontane dal suo stile e nessuno ha mai raggiunto quell’unicum idilliaco. Potremmo quasi ritenere questa canzone a cavallo tra due epoche: quella pre-Duemila e quella post-Duemila, con due modi totalmente distanti di approcciarsi alla musica.
NELLA CULTURA CONTEMPORANEA
Ricordiamo sempre che gli anni di cui si sta parlando hanno visto al centro della scena, soprattutto negli Stati Uniti, il grunge, o meglio, il tramonto del grunge. Il cantante entra a gamba tesa nel mondo musicale in questo periodo, ma non ha nulla a che fare con ciò che lo circonda.
La sua arte e il suo stile inconfondibile saranno apprezzati, purtroppo, soprattutto dopo la sua morte.
Elliott Smith non era il paladino di una generazione e non ha mai rappresentato i più. Anzi, se Kurt Cobain è diventato, mal volendo, l’emblema degli emarginati, il cantautore è stato a capo di un’altra cerchia di persone che non si riconoscevano né nella società di quel tempo e neppure in quella di cui raccontava Cobain. Una sorta degli emarginati degli emarginati.
Se conosciamo il musicista di Portland oggi e se è entrato nella cultura, a metà tra il pop e il mondo alternativo, questo è successo soprattutto grazie al cinema. Primo tra tutti Gus Van Sant, che ha ritenuto quelle note perfette come sottofondo alle sue storie.
Ad esempio, la toccante Angeles accompagna sia Paranoid Park del 2007 che il più fortunato Will Hunting – Genio Ribelle del 1997 (nella cui colonna sonora il cantautore la fa da padrona).
Come tutti sappiamo, però, Smith ha raggiunto, inconsapevolmente, l’apice proprio grazie a Needle in the Hay inserita nella scena madre del film I Tenenbaum diretto da Wes Anderson.
Per fortuna, questi sono solo alcuni casi che possiamo citare tra i tanti.
Tornando al disco e portando il discorso alla conclusione, posso sostenere con fermezza che per me Elliott Smith ha sempre rappresentato un’àncora di salvezza. Così come i ragazzi sulla copertina si lanciano in un abisso indefinito, senza sapere dove cadranno, dove li porterà il futuro, io mi sono gettata in queste dodici canzoni. Un percorso interiore che rappresenta alla perfezione lo stato d’animo umano. A partire dai brani più tristi, fino ad arrivare alle ballad, che in verità non contengono una vena allegra.
Elliott Smith è stato un genio unico e non si può collocare in nessun filone musicale, perché ha creato qualcosa di indefinibile. E questo, lui, purtroppo, non lo saprà mai.
Assunta Urbano