La scorsa notte la solita iperattività cerebrale che mi ritrovo durante le ore piccole, insieme all’ennesima ondata di caldo con le zanzare come contorno, ha tolto ulteriori ore di sonno alla mia estate. Ho cercato di farne qualcosa di produttivo, stavolta, di questo tempo: finalmente ho approcciato l’ascolto di “Telas”, la più recente fatica discografica di Nicolas Jaar.
Ho colpevolmente rimandato per giorni l’incontro con questo EP: avendo “saggiato” solo alcuni minuti di quello che mi aspettava, l’idea era di metabolizzarlo col giusto mood mentale, anche perché dopo “Cenizas”, pubblicato (e recensito) una manciata di mesi fa, le aspettative erano meritevolmente alte.
Tuttavia, non c’è asticella impossibile da superare per chi, allo stato attuale, sta proprio gravitando in un’altra galassia.
La recensione di “Telas”: molto più di un disco
Una keyword che racchiude l’intero concept proposto ai timpani: in linea con la scelta della più recente release (il cui titolo significa “Ceneri”), stavolta il produttore cileno-statunitense propone dei “Veli”. C’è coraggio e sana voglia di fare quel che cazzo gli pare, perché quando possiedi un’etichetta che funziona bene come la Other People puoi permetterti di pubblicare un (grandissimo) disco che pascola beatamente i campi dell’elettronica sperimentale per poi, dopo tre mesi, uscire con un nuovo elaborato ancora più ostico. Lo spirito di floridità artistica degli anni ’60 che rivive in pieno stato di salute.
Telas è una proposta formata da quattro brani che, in un crescendo di giochi linguistici, vengono declinati attraverso derivazioni della radice linguistica “Tel-“: “Telahora”, “Telencima”, “Telahumo” e “Telallás”. Nelle settimane precedenti abbiamo riportato con grande interesse le scarne note informative offerte da Jaar attraverso il proprio sito, ma quando si schiaccia il tasto play tutto sembra azzerarsi, tratteggiando nuovi, personalissimi, scenari multidimensionali.
Il tutto è più della somma delle singole parti
Ricondurre a generi musicali l’ora di suoni plasmati risulta solo un’opera di evirazione degli attributi del disco: le prime note suonano un cupo free jazz, e gli orizzonti si allargano minuto dopo minuto includendo noise, ambient, rumori di fondo, tensione granulosa carica di glitch, arpeggi orientaleggianti e parole sussurrate nei meandri di labirinti sintetici.
La forma-canzone viene distrutta per ricomporne i minimi termini anche attraverso l’ausilio del silenzio, insieme ad una cura maniacale capace di elevare ad atto sonoro ogni singola distorsione che il microfono riesce a captare. In rare occasioni è possibile contare un 4/4 attraverso strumenti percussivi che regalano scansioni ritmiche dai risvolti inaspettati. L’idea complessiva è di un’opera ieratica e multimaterica la cui finalità ultima è l’esplorazione di questa arte che conosciamo tutti come musica. Nella più completa alienazione dalle dinamiche precostituite e dalle più note storture.
Parlare di Nicolas Jaar allo stato attuale significa collegare il lavoro di pentagramma al pensiero filosofico e l’analisi sociale: operazione splendida per chi, come il sottoscritto, si ritrova quotidianamente ad intrattenersi attorno tali argomenti. Ma è anche un’esperienza sensoriale che richiede energia e materia grigia muscolosa per essere apprezzata con efficacia senza liquidare il tutto con superficialità. Perché in mezzo a tanti feedback positivi, per “Telas” c’è un risvolto della medaglia fatto di dislike sciorinati gratuitamente sulle piattaforme di streaming, di commenti piccati che, a mio modesto parere, non rappresentano critiche costruttive ma solo cattiverie a buon mercato verso un musicista che ha lavorato quattro anni per realizzare qualcosa di veramente diverso.
È l’ombra della luce emanata da quattro brani che sconfinano negli statuti dell’audiovisivo. Tutto converge su un sito tematico che contribuisce ad amplificare l’alone di mistero attorno una manifestazione d’arte che lascia poche spiegazioni ufficiali ma tocca le corde della sensibilità di ogni fruitore.
Chi (o cosa) sta diventando Nicolas Jaar?
La sensazione è che il nostro sia di recente ritornato sul pianeta Terra con testimonianze di altre forme di vita ed un concetto d’arte totalmente distante dai nostri canoni. Il fu enfant prodige dell’electro-house, dieci anni dopo aver edificato monumenti istrionici della dancefloor, ha intrapreso un percorso esplorativo, un viaggio dove le note sono solo un mezzo per scavare nelle proprie inquietudini e modulare un nuovo registro comunicativo. È un uomo che sta andando oltre, uno Übermensch squisitamente disinteressato, per ora, delle larghe accoglienze.
Dalle sperimentazioni al pop, e viceversa: mi risulterebbe una sgraziata forzatura non pensare che Jaar stia percorrendo la carreggiata opposta a quella imboccata da Franco Battiato nei primi 15 anni di carriera. D’altronde, la musica si (ri)conosce, come dimostra questo video datato 2017: Nicolas Jaar inizia la sua liturgia elettronica al Club To Club con un tributo immenso, da autentico sacerdote del suono che giorno dopo giorno sta confermando di meritare tale investitura.
Perchè, le gioie del più profondo affetto
O dei più lievi aneliti del cuore
Sono solo l’ombra della luce