Rivoluzione Rap in Campania: cosa succede da Roma in giù

Se dici Rap, in Italia, la moltitudine comincerà a vagliare gli angoli più reconditi della propria memoria alla ricerca dei nomi maggiormente noti – ma non per forza talentuosi – della scena madrelingua. In virtù di questo, qualora fosse un pensiero standardizzato al punto di consentire uno studio statistico, probabilmente i primi dieci saranno artisti del nord, con una piccola percentuale di inquadrare qualcuno dalle isole (Sardegna, ogni riferimento ai natali di Salmo è puramente voluto) o dalla capitale.

Ma lo stivale è ricco di cultura territoriale. Al punto da parlare dialetti estremamente profondi, radicati e antichi, tanto da essere considerati vere e proprie lingue fatte e finite. Il dialetto italiano più conosciuto ed esportato nel mondo e in patria è senza ombra di dubbio il napoletano. La parlata partenopea ha saputo nei secoli entrare in simbiosi col mondo dell’arte e la musica ne è da sempre il principale manifesto.

Il Rap sotto la capitale. Controtendenze linguistiche e uniformità di intenti.

Restringendo il campo, se da Roma in giù dici Rap qualcuno comincia a pensare ad altri volti, rispetto al trend nazionale. Stavolta tutti cantanti dialettali, almeno per quanto riguarda il nuovo che avanza. Senza scomodare mostri sacri del calibro di Caparezza, per intenderci. Il cerchio si concentra al punto da poter fare un focus abbastanza dettagliato sui soli rapper e trapper originari della Campania. O parte di essi. Cosa sta succedendo quindi? Senza fare enormi voli pindarici, cerchiamo di mettere un po’ di ordine snocciolando qualche nome e relativo contesto di appartenenza.

Dai melodici di vecchia scuola, passando per i neomelodici ormai agli sgoccioli, fino a raggiungere la nuova wave Rap e Trap. Come sta cambiando la percezione musicale a Napoli e dintorni.

Chiunque abbia un minimo di cultura pop sa bene che è la città di Napoli a fare da traino per tutto il meridione per quel che riguarda la linea guida musicale. La sentenza è riduttiva, selettiva e puerile ma necessaria per non perdersi nell’immensa diversità delle sfumature, sia di genere che di generi. Altrimenti facciamo notte.

In principio ci fu la canzone tradizionale napoletana che conquistava gli Stati Uniti, poi c’è stato il tempo degli sceneggiati e di lì a poco il boom dei neomelodici. Questi ultimi hanno regnato per decenni su tutto ciò che poteva essere dominato. Continuano a farlo, ma qualcosa è cambiato. Non tanto i temi e gli argomenti che, a conti fatti, sono più o meno gli stessi ma con proporzioni ridistribuite, bensì per gli interpreti. I gorgheggi sono diventati rime baciate, la struttura iper melodica ha lasciato il passo ad un approccio ritmico e i sample, assieme ai computer, hanno definitivamente scalzato gli strumenti tradizionali, veri e propri feticci da esibire in rare occasioni.

Il tempo dei maestri di musica è finito. Ora è il momento dei producer. Ragazzi spesso giovanissimi che costruiscono i beat sui quali il rapper cucirà in seguito il suo pezzo. Dat Boi Dee è il nome più caldo. Attorno alle sue creazioni vorticano i rapper di successo campani. La sua formazione e passione per le produzioni americane, anche Pop, hanno fatto sì che molte sonorità non proprio digerite in Campania abbiano potuto ispirare la nuova generazione di artisti dialettali. Senza mai dimenticare la pietra miliare dei Co’Sang che hanno dato il là al movimento in tempi e luoghi davvero non sospetti, oggi parliamo di Geolier, Lele Blade, Samurai Jay e Enzo Dong. Solo per partire.

Sempre più spesso i rapper del sud cominciano a pensare ed agire come quelli del nord, ovvero infittiscono collaborazioni, soprattutto tra compagni di scuderia o colleghi dello stesso producer. Si allineano ai suoni dal sapore internazionale. La differenza è che mentre altrove nascono gang e collettivi (anche storici tipo la Spaghetti Funk di J-Ax), da queste parti invece sembra realizzarsi una vera e propria confederazione. Restando comunque nell’ambito del commerciale, senza digressioni sul prodotto di nicchia, importante ma sorvolabile ai fini del concetto. Quello fa testo a parte.

La popolarità passa dalle visualizzazioni su YouTube. Non conta quanti dischi vendi (sempre che se ne vendano ancora), ma quanti click ci sono sul tuo profilo. Per questo tutto fa brodo e certe collaborazioni ne sono la prova nascendo col solo scopo di aumentare i numeri. Le contaminazioni esistono da sempre, non scopriamo l’acqua calda. Il Rap campano in napoletano le ha spinte verso orizzonti nuovi, alcuni trascurabili, altri degni di nota. Qui si fanno vive le featuring di e con cantanti Pop a tutti gli effetti: Livio Cori, Anna Tatangelo e addirittura Gigi D’Alessio. Un processo antico e rodato che invece si è sublimato nell’ultimo anno nella forma attuale e continua a evolversi mantenendo un’impronta moderna e contemporanea.

La punta di diamante del Rap napoletano: il rione, la vita agiata e i soliti dogmi di un territorio che mai saprà scrollarsi di dosso l’odore della malavita.

È bene fare una premessa: l’idea della criminalità organizzata è più una vena d’oro dalla quale attingere per manifestare velleità di grandezza. I rapper, in genere, sanno ruotarci attorno. Oggi sono diventati bravissimi a raccontare senza dire o a esprimere senza (?) vivere quel che descrivono nei loro testi.

Quindi il collegamento banalissimo è servito. Resta funzionale, lasciamo trasportare. Difatti autori di un certo peso sembrano defilarsi dal cordone principale che lega la nuova leva a metà strada tra rapper dannato destinato a elencare le spese con soldi facili, non meglio giustificati, e trapper più giovani saldati a fuoco a tematiche spicciole a matrice unicamente festaiola o di conquista femminile.

Non a caso si genera il paradosso in cui Clementino diventa “old school”. Lo stesso vale per Rocco Hunt . Entrambi hanno avuto la fortuna o la sfortuna, a seconda dei punti di vista, di avere qualche anno in più e soprattutto la facoltà di scrivere di qualsiasi cosa, anche in italiano. Tralasciamo le capacità tecniche, altrimenti se prima avremmo fatto notte, qui sforiamo di un mese.

Dall’altra parte la vecchia scuola, quella vera, con Luchè sempre più manager ma comunque attivo musicalmente e in grande forma. Sotto di lui prima, e assieme a lui dopo, ha preso il volo Geolier, vero ragazzo prodigio del momento. Le cifre parlano chiaro e gli danno ragione. Ma se dici Geolier non puoi non nominare anche Samurai Jay e Lele Blade. Quest’ultimo col suo stile chicano, spagnoleggiante e ricco di raggaeton ha saputo allargare ulteriormente il pubblico di riferimento.

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È una catena, ogni anello è legato al precedente e porta con sé il successivo. Dopo Blade c’è Yung Snapp, prima producer, ora operoso pure sotto i riflettori. Quindi le collaborazioni con MV Killa e Vale Lambo. In ascesa Nicola Siciliano, anche lui sul carro dei “vincitori” dove i partecipanti trainano, nessuno escluso, ma non si sa bene chi c’è a godersi la parata mentre comodo si becca gli applausi per gli altri.

Nomi e stili intrecciati tra loro, basta davvero una semplice ricerca su internet per vederli assieme in più riprese, che costituiscono una tirannia di visualizzazioni e notorietà. Ricordiamoci di fare la proporzione col bacino d’utenza a cui si riferisce. Ad ogni modo, uniti sotto un vessillo invisibile e incredibilmente corporativo. La sorpresa è qui.

Un leggero passo di lato per il più “italico” Capo Plaza a cui spetta l’onore e l’onere di difendere la scuola salernitana assieme a Rocco Hunt. Altra tradizione, se vogliamo, ma ugualmente efficace, di più ampio respiro e soprattutto meglio contestualizzato col trend Rap milanese e, in piccola parte, romano. Il rapporto con la scena della capitale ha portato invece Enzo Dong a costruire collaborazioni con la Dark Polo Gang. Per quanto lo trovassi all’inizio un binomio improbabile, devo ammettere che le due realtà artistiche sembrano frutti dello stesso albero. Rami lontanissimi, ma radice unica. Basta leggere i testi per predisporsi subito meglio.

Menzione d’onore per Ntò, l’altra faccia dei Co’Sang. Antonio Riccardi ha invece proseguito imperturbabile sulla sua strada, dove il livello qualitativo non ha mai subito grosse sbavature, anzi. Applauso al merito, ma anche alle scelte fatte. Da un po’ si trova in armonia produttiva con suo zio Enzo Avitabile e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Per la gioia di chi ama il taglio d’autore.

È addirittura riuscito a “raddrizzare” l’immagine burbera e scurrile di Speranza, il fenomeno mediatico di “Chiavt a Mammt”, che riporto in rigido virgolettato. In verità Speranza è uno che nasconde una certa concretezza, il tempo gli ha dato ragione e Daria Bignardi devo ammettere che ci vide lungo invitandolo a L’Assedio.

A margine cito il buon Liberato. Solo per una questione squisitamente relativa alle pubblicazioni. Il cavallo tra il 2019 e il 2020 non è stato proprio il suo momento. Ma, chiunque tu sia, nun ce simme scurdate ‘e te.

L’impero neomelodico è destinato ad una fragorosa conclusione?

La domanda pare inevitabile, come il confronto forzato tra i due mondi. Calcolando cosa offre il genere Rap/Trap in dialetto napoletano, rispetto alla controparte melodica, sembrerebbe di sì. I primi godono di costante e prolifico rinnovamento, moderno e attrattivo di una massa ora eterogenea seppur volubile e quasi mai riconosciuta per il gusto verso la proprietà di scrittura (esattamente come i secondi). Di contro il popolo della “fronna ‘e limone” (ovvero i tipici vocalizzi glissanti che delineano il genere) dà l’impressione di essersi messo in naftalina, schiavo di una tradizione che assolda via via meno adepti tra i giovani di sesso maschile. Ago della bilancia sulla questione.

Ci sono voluti trent’anni per costruire un “nuovo” polo nell’immaginario musicale del sud Italia (barbaramente detto così, con superficialità e ignavia dantesca). La speranza che gli emergenti affinino le loro capacità per elevare le proprie produzioni verso qualcosa di veramente notevole è forte sotto ogni punto di vista, non solo per la notorietà sui social e le visualizzazioni YouTube. Tuttavia la tendenza dimostra di appiattirsi velocemente su standard qualitativi discutibili. Accelerare non farebbe male.

Mai come in questo caso il grande numero dei “partecipanti” alla festa Rap dialettale del momento sarà il modo migliore per far raggiungere a pochi di questi il vero successo, ma non è ancora successo. Per la consacrazione bisogna aspettare, speriamo non altri trent’anni, anche perché per quell’epoca l’autotune sarà passato di moda.

Mario Aiello

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