Che succede quando Corey Taylor, una voce che adoro, si divincola dagli impegni pregressi con le sue altisonanti band Slipknot e Stone Sour (qui forse definitivamente), per lanciarsi a capofitto alla soglia dei cinquant’anni in un bel progetto solista?
Lo scopriremo assieme. Lui, l’abbiamo già detto, è Corey “The Neck” Taylor e il disco invece si intitola CMFT.
CMFT è il tocco di diapason per la carriera solista di Taylor. Una decisione ponderata che arriva da non più giovanissimo, dopo quasi trent’anni di carriera a fare altro.
Tempo di burocrazie: CMFT è stato pubblicato lo scorso 2 Ottobre per Road Runner Records. Tutto in famiglia, dato che l’etichetta produce anche le altre due band del cantante. L’album è composto da tredici canzoni con una certa eterogeneità di contenuti. Non vastissima, ma abbastanza ampia da generare una doppia corrente interna, con qualche eccezione: la prima parte melodica, folk, rock sì ma dal chiaro connotato punk-pop per certi versi. Quasi giovanile; la seconda, viceversa, parecchio più coerente con quanto ci si aspetti dall’interprete Corey Taylor. Quindi grinta, una matrice roccheggiante che vira sul classico ma con qualche innesto duro e crudo, senza dimenticare i dogmi blues del passato. Oltre la spolveratina Rap che non guasta mai a nessuno. Figuriamoci a lui.
Insomma, CMFT è una vera e propria minestra. Fatta sul momento però, non di quelle riscaldate. Anche se la sensazione che alcune composizioni siano parecchio antiche è forte.
Senza indugi, e senza cronistoria sulla vita artistica di Corey Taylor, premiamo play e vediamo che succede in CMFT canzone dopo canzone. Il Lato A.
Si comincia. Intro Rock-Folk stile “made in USA”. HWT 666 si riallaccia al discorso Slipknot in maniera evidente grazie alla scelta di inserire questi suoni vagamente distopici durante l’apertura. Uno lo nota e lo dice. Non per fare sterile critica. Sui passaggi melodici si ritrova tutta la formula conosciuta a firma Corey Taylor, mentre la vena quasi Stoner degli intermezzi picchia il giusto. Tutti si aspettavano la voce rotta dalla raucedine, mai come in questo caso è impostata e pulita. Certo, entro i limiti morfologici delle corde vocali di cui dispone. La varietà della canzone rispecchia quella dell’intero LP.
A mio parere il più del lavoro è toccato alle chitarre, vero ago della bilancia in quanto a cambiamenti, lambendo pure il Country. Resta la poetica incentrata sui demoni, vite sul filo della morte e innesti mistici con tutta la trafila ben nota per chi ha esperienza con la penna del cantante dell’IOWA. Le immagini forse ci vengono in soccorso ecco il video pubblicato il 2 Settembre.
Tripudio di colori in Black Eyes Blu. Oddio, saranno tre o quattro in totale a volerli contare. Il sentimento suonato da Corey Taylor a volte si perde tra le metafore non sempre eloquenti, ma sa portarsi a compimento per l’aspetto musicale. Qui tutta catchy e ritmata. Spessore non di rilievo, eppure abbastanza tenace da farsi ricordare già dal primo ascolto. Soluzioni del genere non sono tra le mie preferite, anche se di repertorio, oltretutto. Tuttavia possono piacere proprio per la semplicità. Il polso si misura negli intermezzi, quando la chitarra dice: “ok, me la sbrigo io qui”.
Nuove consapevolezze crescono con Samatha’s Gone. Peccato che non tutte siano reali e razionali da poter pretendere un certo grado di interesse. Apparentemente non si ha più nulla da perdere quando una donna speciale lascia un enorme vuoto nelle nostre vite. Non bisogna rassegnarsi. Però la fretta di cercare nuovi spunti per mettersi alla prova, in non ben definite circostanze che sono “altre”, non aiuta certo a riempire quel vuoto. La canzoncina acchiappa e con timidezza la dichiaro “versetto pop-punk”. Non cambierò idea. Per fortuna le chitarre smuovono qualcosina, anche in termini storici, pescando dal baule della NWOBHM.
Resta il calderone Punk. Cambia la declinazione, ora leggermente più energica. CMFT può sfoggiare almeno due “inni”. Meine Lux è uno di questi. Il titolo mi fa pensare al passato da dipendente in un sexy shop in Quel di Des Moines. Sarà una mia forzatura. Ad ogni modo qui, tra cori “oh oh oh” in pieno stile The Offspring dei tempi buoni, più alcuni obbligati tipici del genere, non ho capito di che si parla. L’ho dunque presa così com’è, esattamente come le precedenti a dirla tutta. Quindi la musica prima e ce la facciamo pure bastare.
Impianto roccheggiate a tema classico sulle note di Halfway Down. Stavolta la coda dei ritornelli è leggermente più lunga e articolata. Non mancano ora, e in tutto l’album, omaggi alla cultura Rock di grande diffusione. Anche per questo si lascia ascoltare con piacere, senza però stuzzicare grosse fantasie. Ecco, una fantasia mi raggiunge carpendo il significato dal testo: ma non è che si sta raccontando un amplesso? Se così fosse non l’ha camuffato poi tanto bene.
La dannazione psichica costantemente messa in scena da Corey Taylor ritorna con Silverfish. Il protagonista della storia si ritrova a fronteggiare (ancora una volta) i propri demoni interiori, ma pure qualche bestia vera. Il contatto con la spiritualità serve a dare forma e sussistenza alle illogicità che gli si parano davanti. Chi non ci è passato mai nemmeno una volta nella vita? Refrain che fa cadere le braccia, nel complesso è un pezzo troppo blando e andante. Va detto che su tredici tracce qualcosa bisogna concedere. Quindi ci sta.
Kansas dal canto suo pare essere infetta asintomatica della precedente. Mutano dinamiche e approccio, ma la matrice è la stessa. Se esiste il brano scanzonato per eccellenza in CMFT, è sicuramente questo. Il clap in alcuni frangenti, tipo soundtrack dei teen movies alla American Pie mi ha un po’ fuorviato sulle prime. Poi parte direttamente l’accettazione, mandando a quel paese tutte la fasi di elaborazione del lutto. Difatti la propositività delle parole, riferite ad un futuro radioso da costruire non senza fatica e sacrifici, spesso va a cozzare col clima delineato. Certi passaggi si presentano fin troppo “maturi” per essere esposti con il “la la la” sul giro armonico di Do maggiore. Non so, tipo interpretare E Lucevan Le Stelle della Tosca sul commercial jingle della Coca Cola.
Quale migliore conclusione interna in CMFT per un Lato B parecchio più aderente alla figura di Corey Taylor? Nessuna.
Culture Head si lascia alle spalle tutto il discorso commerciale per rientrare dalla porta di servizio nel vivo della contestazione umana e di fede. L’ultimo in ordine cronologico dei quattro singoli corredati da video ufficiali, almeno finora. La pienezza delle sentenze è sbalorditiva. Peccato vengano fornite pressoché nulle argomentazioni. Tuttavia, mi ha convinto lo stesso, siamo in piena deriva populista: enormi nella loro vacuità. Per fortuna il basso impera ovunque ci sia abbastanza sinusoide libera per riuscire a sentirlo. Corey Taylor si trova a suo agio in produzioni di questo genere e anche la rinomata voce comincia a tirar fuori il meglio di sé.
Contrariamente a quanto appena detto Everybody Dies On My Birthday è un manifesto di predica lanciata dal miglior pulpito. Chi conosce le gesta del frontman se lo aspetta sempre. Ovunque, quandunque e oserei dire ordunque! Non si comprende mai bene bene il sottile limite tra ironia, sarcasmo ed estrema serietà che caratterizzano la tempra del cantante (a volte) mascherato. Qualcosa lo mette in ordine la forma per suoni che si fa via via ruvida e scoppiettante.
The Maria Fire è un Blues-Rock fine a se stesso. Un Esercizio di stile per dire a tutti: “vedete, abbiamo anche questo nel menù alla carta”. Storia di ceneri ideologiche sulle quali contemplare la dipartita morale di chi ci sta un tantino sulle scatole.
Reminiscenza Sanremo 2020 in Home. No, nessun plagio. Ma facendo la parafrasi del testo verrebbe fuori “le buone intenzioni, l’educazione” eccetera eccetera. Resto dell’idea che essendo CMFT un disco di tredici canzoni, né brevi né interminabili, la scelta della scaletta debba rispettare alcuni piccoli accorgimenti “fisiologici”. Anche se viviamo un’epoca blasfema in cui la parola “disco”, in musica, non significa più un emerito cazzo. Vabbè, io gli voglio bene comunque al buon Corey “The Neck” Taylor, pure se in questa piano e voce poteva esprimere al 100% le potenzialità del suo strumento vocale e non l’ha fatto. Un’occasione mancata.
Un passo alla volta siamo giunti al singolo che ha aperto le danze sul progetto solista CMFT in quel di Luglio. Titolo che è tutto un programma: CMFT Must Be Stopped feat. Tech N9ne and Kid Bookie. Canzone di cui ne abbiamo ampiamente non parlato nei mesi scorsi e non perderemo la faccia tornando sui nostri passi proprio oggi. In effetti solo questo brano poteva fungere da apripista all’LP. Un po’ per la verve da sigla corale per qualcosa di collettivo, un po’ per gli innesti Rap, un po’ per la marcata versatilità della voce.
Chiude tutto sbattendo la porta European Tour Bus Bathroom Song. A parte la linea lirica sembra una canzone del Kill ‘Em All dei Metallica. Anno 1983. Chissà se il bus italiani usati per andare in giro a suonare hanno il bidet. Se così fosse la canzone non avrebbe senso.
Corey Taylor è riuscito con CMFT a ritagliarsi il giusto spazio sul panorama musicale su cui, da solo, ha deciso di affacciarsi? Lo so, la domanda ad inizio articolo è diversa ma facciamo finta di niente.
Mettiamola così: non ha inventato l’acqua calda. Tutto ciò che si sente in CMFT è sì farina del sacco di Corey Taylor ma non aggiunge nulla a quanto di lui già conosciamo. Legittimo. Sembrerebbe addirittura sottrarre “aria” ai suoi stessi progetti, Slipknot e Stone Sour, ma calcolando che del secondo probabilmente non ne sentiremo più parlare, ecco che CMFT assume tutt’altra valenza. Gradevole, abbastanza grintoso, altrettanto melodico ma manca il ruggito del leone. Proprio a lui che ha i mezzi per poterlo fare. Nota a margine: suonato da Dio. Applausi.
Mario Aiello