L’America è un gran casino nel sequel di Borat

Circa vent’anni fa lo showbiz americano venne scosso da Ali G, personaggio fittizio nato dalla mente di Sacha Baron Cohen, che si prendeva gioco, in interviste seriose, di personalità illustri (del calibro dell’astronauto Buzz Aldrin e del linguista Noam Chomsky) ignare di avere a che fare con un attore comico.

Dopo Ali G, è arrivato Borat, giornalista originario di un Kazakistan sessista, antisemita e palesemente distorto verso un sistema patriarcale di stampo rurale. Nel 2006 il primo lungometraggio, intitolato “Borat – Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan” o più semplicemente “Borat”. In un 2020 che assume spesso contorni da commedia fatta talmente male che non diverte nessuno, ecco la pubblicazione in esclusiva su Prime Video del sequel, intitolato “Borat – Seguito di film cinema” (vi risparmiamo il titolo completo).

 

 

Borat - Dal Gulag all'America

Borat – Dal Gulag all’America

 

La trama è presto sintetizzata: Borat, tornato in madrepatria alla fine del primo film, viene osteggiato dai suoi connazionali per aver rovinato l’immagine del proprio Paese al cospetto delle nazioni straniere. Viene rinchiuso in un Gulag e costretto ai lavori forzati per quattordici anni, fin quando non si presenta l’opportunità di riscatto che passa attraverso un biglietto di sola andata per gli Stati Uniti.

Da qui, vicissitudini da road movie attraverso un’impostazione registica da tipico mockumentary mettono in luce, strappando ben più di un sorriso, la commedia fatta di incoerenze che caratterizza un paese come l’America. Borat è coinvolto, suo malgrado, in vicende e spiacevoli scoperte a tratti così surreali da fare il giro lungo e rimarcare quella realtà quotidiana di cui spesso fatichiamo a capacitarci.

Negazionisti, QAnon, emancipazione dal patriarcato, lobby degli ebrei, acredini sciali da Black Lives Matter, politici incarcerati, pedofilia, Covid e Kanye West. Tutto ribolle nel calderone a stelle e strisce, “This is America” canta Childish Gambino. Ed allargando la messa a fuoco verso una visione d’insieme, il sorriso diventa più amaro.

 

Borat e sua figlia (o per dirla con sue parole, il suo non-figlio) Tutar (ri)scoprono un rapporto familiare che il governo kazako ostacola, ma che in mezzo a tante storture nasce e si irrobustisce fino all’happy ending, che non giunge senza qualche necessario sobbalzo.

Buoni tempi comici arricchiscono un testo (e le relative convergenze paratestuali) nel cui nucleo scorre magma drammatico, molto più vicino al Sacha Baron Cohen serioso e devoto alla propria nazione di “The Spy” che alla dispotica vanità de “Il dittatore”. Resta l’istrionico piacere nell’alternare travestimenti pittoreschi (fino a rappresentare Donald Trump), ma la satira in questi 97 minuti punta a  scavare molto più in profondità .

Borat - Dal Gulag all'America

Borat, una pellicola da comprendere per apprezzare

 

C’è bisogno di una visione attenta e molto smart per godersi la poetica del grottesco che è portante in Borat 2. Un film del 2020, dove il Coronavirus si introduce in sordina per diventare imperante, specchio della società e dei social con una sapiente miscelazione degli ingredienti da tirare in ballo.

Apprezzabili gli incisi che rendono il film più vero e, soprattutto, credibile l’indiscrezione che sia stato girato in gran segreto. Inquadrature in movimento, integrazioni con camere di qualità differente rispetto allo standard cinematografico restituiscono una sensazione di verosimile che può solo invitare a riflettere. Capita di ridere assecondando il meccanismo del “guarda, io sono superiore rispetto a quello scemo sullo schermo”, ma fermandosi un attimo a pensare si finisce per ritrovare (ingigantite, sia chiaro) quelle brutture tipiche della vita di provincia come della grande città. In America, in Italia o nel Kazakistan di Borat.

Dopo quattordici anni, possiamo goderci il gradito ritorno del (come si autodefinisce tronfio d’orgoglio) quarto giornalista più importante del proprio paese.

Borat 2

Giornalista | Creativo | Direttore di Scè dal 2018. Collaboro con diverse testate e mi occupo di ufficio stampa e comunicazione digitale. Unico denominatore? La musica.

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