Più di otto mesi fa, mai avrei immaginato che il libro di Roberto Addeo sarebbe stata una delle ultime letture libere prima della scure della pandemia. Ne ho parlato in queste pagine con genuino trasporto, figlio di una scoperta piacevole e di un prodotto editoriale valido e concretamente originale.
È passato del tempo, alcune cose non sono più le stesse, altre sono immutate: non sto parlando delle certezze della vita (quelle stentano sempre ad esserci), ma della capacità di questo scrittore, che collega isola (Sardegna) a continente, di elaborare parole personali e di personalità. Nella prosa, come nella poesia.
Scrittura acida di “Bile” nella sua più recente pubblicazione. Un poema agile che vive l’istante del digitale ed un costante riequilibrio tra linguaggio tecnico ed attimi (le cui dinamiche riportano alla mente i primordiali episodi editoriali di Vasco Brondi) di dialogo intimo, in frammenti di quotidianità ermetici ma al tempo stesso condivisibili. Perché ognuno si è ritrovato a vivere almeno una riga di questo poema.
Ne abbiamo parlato con Roberto Addeo.
Roberto Addeo – L’intervista
- Ciao Roberto, ci siamo lasciati con il tuo “T.S.O.” e ci ritroviamo in un periodo storico-sociale certamente non splendido. Come stai e quanto ha inciso quello che stiamo vivendo su “Bile”?
Ciao Giandomenico. Come sto? Parafrasando una canzone degli Afterhours: “Non so chi colpire, perciò non posso agire“. L’editore di Transeuropa mi ha fatto notare che stiamo vivendo un periodo atrabiliare. D’altra parte Bile è nato proprio sotto questo segno malinconico e di forte inquietudine. Non riuscivo a scrivere prosa, né tanto meno a leggere – che per un lettore appassionato come me vuol dire entrare in depressione –, ma per buona sorte è venuta a farmi compagnia la poesia, che vivo come folgorazione improvvisa: di tanto in tanto mi cade in testa dal grattacielo più alto del mondo, una vecchia ferita che si scuce e sanguina per ricordarmi che sono ancora vivo, che dentro di me gorgoglia una forza che non posso accantonare del tutto.
Quello che stiamo vivendo ha inciso su questo poema in maniera decisiva: scrivere Bile è stato un modo per ricominciare a percepire me stesso in una situazione alienante, ponendo l’ascolto a ciò che non riuscivo a comprendere in prima analisi, e rispondendo al senso di vuoto con un taglio capace di incoraggiare quella parte di me che non vuole arrendersi a oltrepassarlo.
- Basta dare un rapido sguardo al tuo curriculum editoriale per apprezzare come la tua creatività trovi sfogo nel campo della prosa come in quelli della poetica. Quali sono i pregi di questi versanti della scrittura che ti portano a viverli con eguale comfort?
La prosa è continua riscrittura, leggere e rileggere centinaia di pagine fino alla nausea, intervenire sui quei punti della trama che col senno di poi sembrano poco coerenti, cercare soluzioni a frasi che non funzionano, a locuzioni che si inceppano. La poesia, invece, almeno per come la vivo io, è un brano di oscurità che non deve essere per forza decifrato, è un microscopico riflesso della misteriosità del mondo, e che ben venga quindi l’emergenza espressiva. La poesia dovrebbe riecheggiare la pluralità di significato dell’esistenza, non spiegarla. Bile è stato scritto in due settimane, durante le notti desolate del lockdown: è venuto fuori così come lo leggi. Ho sostituito pochissime parole; alcune parti che non mi piacevano le ho semplicemente tagliate per buttarle via, come aborti spontanei non destinati a vivere.
- Ho la sensazione, leggendo “Bile” di un costante dialogo sullo sfondo del tempo che passa, della crescita personale con le circostanze che cambiano. Quanto è forte la volontà di disegnare immagini attraverso i tuoi versi?
Beh, come profetizzò W. Burroughs, prima o poi ritorneremo ai geroglifici, e in effetti l’espansione di Instagram sembra comprovare la validità della sua previsione. Io non mi sento parte integrante di questa “società dell’apparenza”: il mio sguardo mira altre linee, immagini di mondi interiori poco confortanti, ma spero più avvincenti della realtà. Vivere in mezzo a persone mascherate, che non possono abbracciarsi e baciarsi, è uno shock continuo. Non mi piace quello che vedo, le immagini che disegno con i versi sono il mio modo di tradurre gli effetti di questo paesaggio tempestato di tormenti. In fondo, mi piace parlare di ciò che non mi piace della vita; mi interessa registrare il periodo storico in cui vivo, questo è l’unico compito che mi pongo. E mi interessa dar modo a chi mi legge di ragionare, non intendo mostrare nulla; è tempo di chiudere gli occhi e di guardarsi dentro. Ognuno deve fare in conti con se stesso, oggi più che mai.
• Nelle pagine finali, si fanno spazio termini del nostro vivere digitale. Quanto sta influenzando la scrittura, sia sul piano esecutivo che su quello concettuale?
Il nostro vivere digitale sta influenzando la scrittura nella stessa misura in cui sta influenzando la nostra vita, rendendoci dei perfetti debosciati. Il passaggio dalla macchina da scrivere al computer ha rappresentato una vera rivoluzione per gli aspiranti scrittori; e se pensiamo alla velocità con cui la tecnologia si evolve – tanto da rendere antiquato un computer nel giro di qualche anno –, possiamo facilmente renderci conto che stiamo vivendo tempi molto serrati, circondati da un vortice di stampe che ricorda il ritmo sempre più veloce che sta investendo la moda. Se da un lato trovo stimolante questo fenomeno di continua trasformazione, dall’altro tali ritmi potrebbero risultare deleteri per l’inventiva, per il cosiddetto estro. Il rischio è sempre quello di scadere nella ripetitività e nella monotonia.
Oggi abbiamo a disposizione enormi mezzi per poter sperimentare, liberare una volta per tutte l’atto creativo, eppure la maggior parte dei poeti contemporanei continua a fare l’occhiolino al grande pubblico, rincorrendo i suoi bisogni, quando invece un poeta dovrebbe spingere il lettore a mettere in discussione le proprie credenze e cercare alternative alla visione radicalizzata di un’opera. E infatti, ancora oggi, i rari successi commerciali vengono da poesie senza valore, al di sotto dei bigliettini dei Baci Perugina, poesie facili da citare, di taglio sentimentale, “sole cuore e amore” la fanno ancora da padrone. Basterebbe leggere i versi dell’ultimo premio Nobel: per quanto mi riguarda, non vi trovo una voce capace di differenziarsi dalla poesia ahimè tuttora in voga, quella delle forme metriche tradizionali, e trovo cose migliori persino tra gli emergenti e gli esordienti. La poesia del premio Nobel 2020 è destinata al consumo di casalinghe annoiate, a poeti falliti che farebbero meglio a fare altro nella vita e a vecchi massoni. Ce la meritiamo? Temo di sì.
se osservi bene
sull’atlante
vedrai che per noi
non c’è mai stata
posizionese non in un
bagno di sangue
- Rapporto con la diva bile: c’è più amore o più odio?
Odio stare male e “mangiarmi il fegato”. Sogno tempi migliori, epoche di fratellanza universale, per poter scrivere poesie d’amore, magari un poema bucolico o un romanzo rosa. Scherzo, ovviamente. La verità è che stiamo vivacchiando nella prigione delle nostre case; gesti naturali come baciarsi e abbracciarsi sono stati demonizzati fino a cancellarne il senso, abbiamo paura del contagio, di avvicinare il prossimo, tiriamo avanti puntando il nostro orizzonte di sopravvivenza coi paraocchi e la bocca coperta. Pertanto non mi resta che continuare a sputare bile, anche se non mi piace e non mi fa stare bene, mascherina permettendo.
- Tornando un attimo sulla questione del linguaggio: c’è una miscela di parole bio-mediche, della tecnologia fotografica, della dimensione web. Quanto resta di veramente umano, e quanto invece siamo ormai meccanizzati?
Di umano resta ben poco, ma quel poco dovrebbe essere la nostra scintilla per appiccare un gran bel fuoco. Il tutto è nel poco, come ho detto nel mio romanzo “La luna allo zoo”. Bisogna disobbedire alle leggi di mercato per provare a fare qualcosa di buono, disattendere ciò che si aspetta il lettore, nutrirlo con nuova linfa e fargli gustare sapori freschi. Oggi come oggi, cerco negli altri poeti l’ambizione di fondo, ciò che di vivo ribolle sotto la superficie dei loro versi, e poco importa se in definitiva mi piace o meno una determinata opera. Ma il problema è che di ambizione mica se ne trova molta, macché!
Leggere o scrivere mi sembra abbia assunto un significato sempre più legato alla stupida necessità di definire una condizione sociale: tutti vogliono essere accettati, tutti vogliono essere riconosciuti, tutti ambiscono a quel quarto d’ora di celebrità di cui ci parlava Warhol, tutti guardano al profitto. Come dice Houellebecq nel suo romanzo “La carta e il territorio”: essere artisti significa innanzitutto essere sottomessi, ubbidire a messaggi misteriosi, intuizioni che non lasciano possibilità di sottrarvisi, a meno che non si voglia perdere ogni rispetto di se stessi.
Nell’impressione di non aver capito un vocabolo o un concetto, nasce quell’apertura che ci esorta a essere superata: la poesia, e l’arte in generale, deve attivare questi tipi di meccanismi. Procedimenti psichici e intellettuali che ci permettono una sospensione, un intervallo spazio-temporale: è lì che si nasconde l’umano bambino che abbiamo dimenticato, quel punto vitale che perdura in un sistema uniformante e velenoso.
- Dopo “Bile” cos’hai in cantiere? Ormai credo sia assodato che puoi colpirci su tutti i fronti.
Di sicuro non scriverò altra poesia per un bel po’; con Bile credo di aver dato molto. Posso dirti che sto lavorando a un romanzo, ma non posso dirti se riuscirò a terminarlo e se verrà mai pubblicato. Mi piacerebbe in futuro occuparmi di letteratura teatrale, scrivere un dramma, ma ora che i teatri sono stati chiusi che senso avrebbe?
e se il concetto di
veleno non posso
separarlo da quello
della doseso che continuerai
a vivere dentro me
come un sintomo
di cattiva
indigestione