We are who we are è la vera faccia della Generazione Z

Aspettavo da mesi di poter vedere We are who we are, la serie televisiva italo – statunitense diretta da Luca Guadagnino. Il regista non necessita di presentazioni. L’abbiamo visto dietro la macchina da presa per pellicole conosciutissime come The Protagonists del 1999, A Bigger Splash del 2015 ed il più recente successo Chiamami col tuo nome del 2017.

Ora, per la prima volta, il cineasta si è cimentato in un racconto seriale.

La realizzazione di We are who we are è stata possibile anche grazie al contributo essenziale alla sceneggiatura di Paolo Giordano, scrittore del meraviglioso La solitudine dei numeri primi, Francesca Manieri, che abbiamo visto già dietro i dialoghi de Il Miracolo, e l’avventuroso Sean Conway.

I presupposti sembrano quelli giusti per poter parlare di un’opera d’arte.

Gli otto episodi, in collaborazione tra HBO e Sky Atlantic, sono stati resi disponibili in America dal 14 settembre 2020. In Italia, invece, abbiamo potuto godere della visione dal 9 al 30 ottobre, con due episodi in onda ogni venerdì sera su Sky Atlantic.

 

WE ARE WHO WE ARE

LA TRAMA

 

In un periodo in cui siamo – di nuovo – letteralmente chiusi in casa, We are who are ci mostra una realtà diversa, che in pochi conoscono del tutto.

È il 2016, Donald Trump sta per essere letto come quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti d’America, dopo aver battuto Hillary Clinton. I suoi discorsi in televisione vengono seguiti dalla base militare americana di Chioggia, nella città metropolitana di Venezia.

Proprio tra queste mura – inquietantemente uguali, in una piccola realtà che appare quasi falsa e costruita – si svolgono le vicende dei protagonisti.

Fraser Wilson (Jack Dylan Grazer) è un giovanissimo quattordicenne che si trasferisce da New York in una piccola cittadina italiana del Nord-Est. Arriva qui insieme alle sue due madri, Sarah (Chloë Sevigny) e Maggie (Alice Braga), rispettivamente colonnello e infermiera.

È difficile spostarsi in un posto nuovo senza conoscere nessuno, tanto più se sei un tipo strambo e stai vivendo uno dei periodi di passaggio più complessi della tua esistenza.

Nonostante ciò, l’incontro con Caitlin Poythress (Jordan Kristine Seamón) è decisivo per entrambi. Lei, vicina di casa dalla vita perfetta, con famiglia modello e tutto nella norma, scopre finalmente se stessa solo accanto ad un freak come Fraser. Quest’ultimo poi si rivelerà quasi il più abitudinario dell’intera cerchia che popola gli otto episodi di We are who we are.

we are who we are

GLI AMERICANI SONO FELICI SOLO IN AMERICA 

 

Dopo aver terminato la visione della miniserie di Luca Guadagnino, senza ombra di dubbio la prima ricerca online dei telespettatori è stata quella riguardante le basi militari americane presenti nel nostro Paese.

Il tutto ha preso il via nel 1943, con l’invasione dell’Italia durante la Seconda guerra mondiale. Dopo la liberazione, grazie all’ausilio degli statunitensi, tra i due Paesi nel 1951 è nato un accordo di cooperazione militare. Secondo quest’ultimo, gli americani, in cambio di ettari di terreno, si impegnavano a risanare il nostro sistema di comunicazione.

Con il passare degli anni ci sono stati molti cambiamenti, fino al 2013, anno in cui si contavano circa cinquantanove basi e installazioni militari in Italia. Quella che vediamo in We are who we are è in realtà un luogo fittizio, dal nome “Caserma Maurizio Pialati – Usag Italy Chioggia”, e il set cinematografico è stato costruito nell’ex base dell’Aeronautica Militare di San Siro in Bagnoli, intorno alla città di Padova.

Un aspetto insolito, seppure all’interno di un luogo più frequente di quanto si possa immaginare, è la claustrofobia che hanno causato quelle immagini. I protagonisti vivono in una realtà apparentemente finta e hanno delle regole da seguire per poter uscire e rientrare nella loro “bolla”.

Addirittura, persino i supermercati e gli ambienti comuni sono tutti costruiti perfettamente nello stesso modo in tutte le basi militari del mondo, in modo da non far sentire spaesati quelli costretti a vagare spesso da una all’altra.

Questo rivela una terribile realtà, che da fuori potrebbe quasi apparire come la condizione dei cricetini in gabbia. Sebbene in Italia, i militari continuano a vivere alla loro maniera. Perché gli americani sono felici solo in America.

Ci addentriamo dunque in una realtà diversa da quella a cui siamo abituati, in cui l’obbligo alla leva militare è stato invece abolito da tempo. Gli americani, invece, pensano che ogni soldato che serve il suo paese in guerra sia un eroe.

Un’idea della vita basata sul conflitto e sulla vittoria del più forte sul debole. This is America.

LA MUSICA ITALIANA VIAGGIA PER IL MONDO

 

A curare la colonna sonora di We are who we are è stato ingaggiato il cantautore e produttore inglese Devonté Hynes. Non è di certo un caso se è proprio con un concerto del suo progetto personale Blood Orange che si fa terminare il racconto, all’interno di un locale dell’eccentrica Bologna.

Grazie alle scelte musicali dell’inglese, inoltre, la serie televisiva prende a tutti gli effetti la forma di una realtà multiculturale. Alle sue canzoni personali, a brani hip hop, trap, Let’s spend the night together, il musicista ha aggiunto quelli che per noi sono diventati ormai dei classiconi.

Non nascondiamo che abbiamo provato un certo brividino di piacere nell’ascoltare, tra gli altri, brani come Oroscopo di Calcutta, con l’introduzione dell’argomento sessuale nella serie, Emilia Paranoica dei CCCP, durante la folle festa di matrimonio, e Dicembre di Cosmo. Pensare che questi piccoli pezzi di cuore gireranno per il globo è motivo di vanto per il nostro panorama musicale.

Molto meno, invece, può gioire il mondo enogastronomico. Sicuramente l’italiano che prepara degli spaghetti al pomodoro e permette agli altri commensali di armarsi di ketchup ha provocato un infarto a tutti gli amanti del cibo, quello commestibile.

Il mash up dei due mondi, sia dal punto di vista ambientale, culturale, ma soprattutto musicale è uno dei punti di forza di We are who we are.

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SENTI MAI CHE NON APPARTIENI A NESSUN POSTO IN PARTICOLARE?

 

In ogni caso, il tema centrale della miniserie diretta da Luca Guadagnino è la fragilità dell’essere umano nell’istante in cui si approccia al mondo circostante.

Gli otto episodi che costituiscono l’intero racconto hanno tutti lo stesso titolo, Qui ed ora, e ad ognuno è accostato il numero della puntata. A differenza dell’epilogo finale intitolato E infine qui ed ora 8.

I personaggi, principalmente gli adolescenti, si sentono incastrati, rinchiusi in un mondo che non hanno scelto e da cui non riescono a scappare. Solo quando si ritrovano all’esterno scoprono i veri piaceri della vita e si sentono finalmente liberi.

Strani, folli, insoliti, tutti insieme affrontano nelle maniere più strampalate il periodo della giovinezza, ormai tutt’altro che spensierato. In particolare, Fraser e Caitlin (che ricordiamo più con lo pseudonimo Harper), sono gli unici due individui che riescono davvero a vincere su loro stessi e a fuoriuscire dai canoni che la società gli ha imposto.

 

“Se nessuno capisce, significa che siamo nella collezione sbagliata”

I due si sentono costantemente diversi dalla ciurma che li circonda, ma questo non significa per forza che siano sbagliati. E proprio per insegnamenti del genere che We are who we are rappresenta un esempio. La vera faccia della Generazione Z, ovvero i nati dopo il fatidico Duemila. Persi, delusi, ma soprattutto spaesati e segnati dalla mancanza di futuro.

Nel corso della visione avevamo tentato le ipotesi più svariate riguardo il finale. Il tutto in verità si conclude in modo molto dolce e leggero, e questo aspetto ci sorprende alquanto, dato che aspettavamo fuochi e fiamme. La miniserie con i suoi colori spenti, le sue caratterizzazioni realistiche, non fa che esprimere la condizione di disagio dell’essere vivi, vegeti e tremendamente reali.

Con un intrinseco senso del contrario, lo scopo finale consiste proprio nell’ammettere la verità, nell’uscire allo scoperto ed accettare una volta per tutte di essere quello che siamo. Degli esseri forse meno complicati di quello che sembra ma pur sempre incompresi.

Siamo tutti matti, facciamocene una ragione: We are we are. It’s not too late: there’s still time to be a rock star.

 

Assunta Urbano

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