Recuperiamo dagli ultimi giorni del 2020 una release firmata da Four Tet. Il producer britannico ha alimentato il recente periodo di florida creatività pubblicando “Parallel” per l’etichetta Text Records.
Parallel e la sua cura per lo spirito – La recensione
Pubblicato ufficialmente il giorno di Natale, questo lavoro di Kieran Hebden arriva a solo un paio di stagioni di distanza da “Sixteen Oceans”. Dieci tracce intitolate come il disco e numerate in progressione, senza troppe concessioni ornamentali; durante le suddette vengono ripresi, in parte, i temi della pubblicazione primaverile, amplificandone gli aspetti più ermetici.
È esercizio per lo spirito l’opening-track: “Parallel 1” dura ventisei (sì, 26) minuti ed assomiglia ad un’abluzione purificativa; rituale per timpani e mente il cui fine è alienare dalle tensioni claustrofobiche del mondo circostante (una réclame avrebbe enfatizzato il logorìo della vita moderna) per disporre al meglio il resto dell’esperienza d’ascolto. La pratica funziona, perché i nove episodi che seguono alternano tutte le anime che compongono lo stratificato universo artistico di Four Tet.
Soundscaping che si reggono su precari fraseggi pianistici, note che quasi si perdono in una galassia di oscillatori. Le sintetizzazioni dimostrano come ci sia una padronanza rara nella gestione dei singoli elementi del suono. L’elettronica è raffinata, a tratti quasi jazzistica per impostazione, ma non per questo supponente: di certo non si spinge in cassa dritta, ma nell’aria c’è ben più di qualche particella club-oriented.
Il tempio della dance si sposta nell’intimo, almeno fino a quando i corpi saranno impossibilitati a rivivere quelle liturgie che sono negate da ormai un anno. Il progetto “Parallel” restituisce una visione di Four Tet che viaggia su binari paralleli: essenziale ed universale.
Se in “Sixteen Oceans” serpeggiava ben più di una voce riguardo idee non proprio freschissime, ed una carriera ormai quantificabile in due decenni con conseguenti e giustificabili cali, la sensazione è di un’artista capace di riconquistare la propria platea (semmai ce ne fosse davvero bisogno) con un lavoro concreto e adamantino.
Parallelamente (sì, stiamo calcando la mano ora che ci siamo accorti del gioco di parole) il nostro ha pubblicato anche un altro disco, intitolato “871”; si tratta di venti composizioni per chitarra, effettate e dal sapore electro-sperimentale risalenti al periodo del moniker Fridge (evolutosi in trio post-rock negli anni tra il 1995 ed il 1997), un elaborato per accademici di Four Tet.
La scena elettronica al tempo del Covid – Un bilancio sul 2020
È di sicuro interesse rapportare le pubblicazioni dell’ultimo anno al contraccolpo di un versante musicale che più di tutti, probabilmente, lamenta l’assenza di eventi dal vivo. C’è di più oltre ai meri risvolti commerciali; bisogna considerare come l’atmosfera, la club culture, sia parte integrante del processo creativo per determinate frange di musica elettronica.
La sensazione è che, di risposta a questo distanziamento, i principali artisti stiano isolando la propria concezione del suono. Le composizioni stanno incanalandosi verso un dialogo decisamente più diretto col proprio io interiore. A corroborare tale ipotesi, i più recenti lavori di Nicolas Jaar: evoluzione liturgica (nel caso di “Cenizas”) ed estremo fulgore sperimentativo (il più cabalistico “Telas”). Con le dovute contestualizzazioni, sembra che Four Tet abbia compiuto qualche primo, interessante passo verso in questa direzione.
La recensione del precedente “Sixteen Oceans”