Il 17 febbraio è stata scritta la parola fine, almeno in teoria, ad una delle pagine più oscure della storia recente del Sud Italia.
Quel giorno, il boss camorristico Raffaele Cutolo è morto all’età di 79 anni a Parma, durante il regime di detenzione al 41 bis per scontare un ammontare complessivo di 4 ergastoli. I più recenti quattro decenni l’hanno visto balzare agli onori di cronaca, e parallelamente nella cultura di massa attraverso importanti opere creative.
In particolare, ‘O Professore sembra essere il “Don Raffaè“ cantato da Fabrizio De André; ma c’è un libro, scritto da Giuseppe Marrazzo, significativo al punto tale da ispirare il lungometraggio che ha cristallizzato l’icona del criminale Cutolo. Ovviamente parliamo del romanzo “Il camorrista, vita segreta di Don Raffaele Cutolo”, che nella pellicola del 1986 diventerà semplicemente “Il camorrista”.
Ben Gazzara, il talentuoso attore che ha interpretato “Il camorrista”
Il film che presenta un appena trentenne Giuseppe Tornatore al mondo del cinema è considerato valido per la qualità profusa alla regia da un esordiente; nonostante le imprecisioni (presenti già nel libro) criticate dallo stesso Raffaele Cutolo, la pellicola si è radicata nella narrazione pop della delinquenza.
A fine anni novanta non era raro, nell’hinterland partenopeo nel quale sono cresciuto, sentire ragazzini per strada fischiettare il tema sonoro composto da Nicola Piovani per il film.
Un aneddoto piccolo, radicato nella portata dell’enorme lascito ideologico che “Il camorrista” ha restituito, grazie anche alla fondamentale performance di Ben Gazzara. L’attore americano, figlio di immigrati siciliani, si è spento nel 2012, curiosamente anche lui nel mese di febbraio: l’aver impersonato Raffaele Cutolo è sicuramente il passaggio più noto di una carriera costellata da trascorsi per niente dozzinali.
Un’avventura iniziata con Monicelli e Totò in “Risate di gioia”, che l’ha visto flirtare a più riprese col poliziesco come in “L’assassinio di un’allibratore cinese”, interpretando personalità forti del calibro di Bukoswki in “Storie di ordinaria follia” prima di collaborare con registi di caratura internazionale (fratelli Coen, Vincent Gallo, Spike Lee e John Turturro, su tutti).
Tra grande e piccolo schermo (con puntuali ritorni in Italia), lo splendido canto del cigno di Ben Gazzara può reputarsi il suo Jack McKay per quel teatro cinematograficizzato che è “Dogville”. Diretto da Lars Von Trier, impersona un cieco che abita un piccolo villaggio delle Montagne Rocciose, attraverso atmosfere rarefatte ed un apparato scenografico ridotto al minimo essenziale.
Versatile ed a suo agio sia in ambienti drammatici che in mood più frivoli, si riconduce troppo spesso a “Il camorrista” il punto d’arrivo per ricordare Ben Gazzara: in realtà è solo la punta dell’iceberg di una carriera estesa per merito di doti magnetiche rare da ritrovare nel cinema odierno.