Martedì 26 giugno i Pearl Jam sono tornati a Roma dopo ben 22 anni , stavolta allo Stadio Olimpico. Prima di raccontarvi cosa è successo due giorni fa, facciamo un piccolo tuffo nel passato. O meglio, nel mio passato.
Gli anni di liceo sono stati terrificanti. L’unica salvezza alle terribili ore di matematica e a quelle quattro grigie mura è stata la musica. Avevo bisogno di scaricare tutta la mia rabbia adolescenziale e così mi avvicinai al rock, in tutti i suoi sottogeneri.
All’epoca tutti i miei amici erano ossessionati da Kurt Cobain, o fingevano di esserlo, condividendo sue frasi sui social. A Seattle, però, non c’erano di certo soltanto i Nirvana. La scena musicale di inizio anni ’90 lì era incredibile. C’erano gli Alice in Chains, i Soundgarden e, soprattutto, i Pearl Jam. E proprio quest’ultimi mi conquistarono più degli altri.
Con il passare degli anni, la mia rabbia si è ampiamente ridimensionata. Ciononostante, non ho mai smesso di ascoltarli e di aspettare il giorno per vederli live. L’ultima data dei Pearl Jam in Italia coincideva con il mio esame di maturità, purtroppo. L’altro ieri, finalmente, il momento è arrivato anche per me.
L’emozione è stata troppo forte. Cerco di rimettere insieme tutti i pezzi di questo fantastico puzzle.
La luna piena splende sullo Stadio Olimpico
Dopo le tappe di Milano e Padova, è toccata anche a Roma la sua serata di gloria. Martedì sera la luna piena splendeva sull’Olimpico. Qualcuno dice di aver visto anche delle stelle cadenti. Insomma, tutto sembra già magico così. Figuratevi se ci aggiungiamo che in questo scenario c’erano live i Pearl Jam.
La band sale sul palco con Release alle 21 e 15 circa ed il pubblico è estasiato sin dal primo istante. E già solo da qui posso confermare che Eddie Vedder e i suoi storici compagni sono in formissima. Sembra quasi che gli anni non siano passati, né per me, né per loro. Per una sera il tempo si è fermato.
Io e tutti gli altri compagni di avventure lì presenti non sapevamo cosa aspettarci, dato che per ogni loro tappa la setlist subisce repentini cambiamenti.
Eddie Vedder stabilisce un contatto strettissimo con il pubblico. In più, passa a pieni voti l’esame d’italiano, conversando per l’intera serata con noi nella nostra lingua madre. Si lascia scappare anche un “Vaffanculo”, diventanto subito uno di famiglia.
L’emozione è stata forte e costante. Poi, all’improvviso, è arrivata quella botta al cuore che attendevo da ormai non so più quanto tempo. Sento il riff di Just Breathe. Guardo la luna. Con una felicità indescrivibile inizio a cantare incredula insieme all’intero stadio una delle più belle canzoni che sia mai stata scritta.
I Pearl Jam ci propongono anche svariate cover, tra cui Interstellar Overdrive (Pink Floyd), Eruption (Van Halen), Black Diamond (Kiss). Per quest’ultima il cantante cede il microfono ai suoi compagni Matt Cameron e Mike McCready.
Con Imagine si accendono le luci dei cellulari (e qualche accendino per i nostalgici pre-tecnologia). Le voci dell’intero pubblico si uniscono, seppure sull’ “aprite i porti”, slogan che campeggia sugli schermi, c’è chi non ci crede poi tanto.
Siamo quasi alla fine, ma la stanchezza non si fa ancora sentire. Fidatevi, non è perché ho 23 anni e sono “giovane”. Stavolta è l’emozione che batte la mia innata pigrizia.
Pensavo che le cover fossero terminate. Dopo la pausa, invece, i Pearl Jam suonano un brano che io conosco molto bene. È Comfortably Numb dei Pink Floyd…ed ancora una volta rimango incredula.
Il 12 dicembre 2012 ha avuto luogo a New York il concerto in memoria delle vittime dell’uragano Sandy. In quella occasione si sono esibiti proprio con Comfortably Numb Roger Waters ed Eddie Vedder. Come potete immaginare, ero incollata letteralmente alla tv.
Mai avrei pensato di avere l’opportunità di assistere dal vivo anche io a qualcosa del genere. L’ho sentita live cantata da David Gilmour due anni fa, e tra qualche settimana sentirò probabilmente anche la versione di Roger Waters. Ed ora l’ho sentita anche cantata da Eddie Vedder.
Da quell’istante in poi non ho più compreso cosa stesse succedendo. Nel giro di poco più di mezz’ora i Pearl Jam hanno suonato Black, Jeremy, Better Man e Alive. Il mio piccolo cuoricino è stato messo sotto pressione seriamente. Eppure nulla è compresso, “I’m still alive”.
L’esibizione ha avuto termine circa a mezzanotte e mezza con una lunga versione di Keep On Rocking in a Free World di Neil Young. C’è stata anche una promessa : “ci rivedremo, forse l’anno prossimo”.
In questo racconto ho riservato uno spazio importante per le cover, è vero. L’ho fatto perché ritengo che un’esecuzione come quella dei P.J. non sia replicabile. Difficilmente un’altra band, a mio giudizio, potrebbe permettersi il lusso di eseguire, agli stessi livelli, brani che hanno segnato la storia della musica.
I Pearl Jam invece possono, eccome se possono.
È la luna che splende sui Pearl Jam o I Pearl Jam che splendono sotto la luna?
Non sono mai stata di poche parole. Anzi, a volte risulto logorroica. Eppure, raccogliere i pensieri e le emozioni a questo giro non è stato semplice. Si è trattato di qualcosa di troppo grande, difficile da comprendere razionalmente, per quanto magico.
Un live di tre ore e un quarto e ben 36 canzoni. Qualcosa di totalmente insolito oggigiorno. Con un Eddie Vedder che, seppure ancora non in perfetta forma fisica, non avrebbe mai voluto lasciare il palco.
Io, dal mio prato B, ho avuto i brividi dal primo all’ultimo secondo. Ad esser sincera, non mi sentivo così felice da non so più quanto tempo.
Quella che ha raccolto a Roma fan da tutto il mondo non è una band come le altre. Ci si lamenta spesso dicendo che “il rock non esiste più” e che “non esiste più la buona musica”. Poi, però, si dimenticano band, come i Pearl Jam, che mettono in scena uno spettacolo indimenticabile.
Oggi, più che mai, quando indosserò una delle mie mille camicie a quadri (alternate solo a felpe dell’Adidas), invece di essere la solita antipatica e scorbutica, sorriderò un po’ di più. Forse.
Assunta Urbano
Fotografie: Henry Ruggeri per Virgin Radio