Ritorna lo “psycho-tropical-beat” degli eclettici Indianizer.
Il quartetto torinese – oltre a decifrare la propria musica con precisione chirurgica utilizzando soltanto tre parole – si è prodotto, per il terzo full lenght in studio, in un sunto certosino tra rock psichedelico, ‘ritmia’ polimorfa tra Brasile e centro Africa, chanson pour le pieds, concludendo con un’aria permeata di ‘allucinazioni’ propedeutiche allo scatto corporeo.
L’approccio alla produzione passa per il concetto di ibridazione delle riprese. La band ha infatti registrato in presa diretta, aggiungendo di volta in volta le sovra incisioni e i campionamenti necessari a delineare la forma più aderente all’idea mistica della loro musica.
Nasce così Nadir, pubblicato il 18 Ottobre sotto l’egida dell’etichetta Edison Box.
Sono gli stessi Indianizer a dettare la mission del loro ultimo lavoro. Una trilogia inaspettata al principio che prende il via da Neon Hawaii (2015) passando dal precedente Zenith (2018). Proprio nei confronti di quest’ultimo Nadir funge da flusso antitetico.
Immaginiamo il movimento di un calzino rivoltato. Suggestione forse troppo banale, eppure accurata. Per riuscire a vedere la metafora è necessario reperire Zenith e lasciarlo ‘andare’. Posta in questi termini, l’ultima fatica di Riccardo Salvini, Salvatore Marano, Gabriele Maggiorotto e Matteo Givone parrebbe diventarne una coda risolutiva.
L’impronta artistica degli Indianizer è un segno indelebile nelle sei tracce del nuovo disco Nadir.
Nadir è composto da sei brani, per circa trentacinque minuti di ascolto.
Già dalle prima note di New Millennium Labyrinth si possono scorgere le caratteristiche principali della band. Nei nove minuti di riproduzione tutto passa attraverso l’udito per essere trasformato in linfa viscerale. Il riff in 2/4 è il filo conduttore a cui si avvolgono le modulazioni di tutti gli strumenti: una passeggiata vivace ed inesorabile.
L’evoluzione danzereccia lambisce momenti cullanti ed isterici alla canzone numero due. Reyna Querida fa dell’altalena di dinamiche il suo punto forte. Facendo da collante minuzioso tra i due brani forse più rappresentativi dell’opera.
Diciamocela tutta, Sin Cleopatra, attingendo a piene mani dall’enorme calderone della tradizione sud americana, riesce non solo a ficcarsi nel lobo frontale dell’ascoltatore come una brutta sinusite in pieno inverno a Oslo ma, seguendo il basso con un orecchio e tutto il resto con l’altro, chiunque resterà rapito dalla congiunzione astrale che gli Indianizer sintetizzano con maestria: ritmi di un continente, linee melodiche del suo opposto e concretezza sonora dal piglio psichedelico ma dalle basi rock.
Il tratto deciso degli Indianizer si consolida nelle restanti canzoni che chiudono il disco.
La quarta traccia, Horoscopic (Saturn Returns), è una delle canzoni con la mistura maggiormente percettibile di influenza rock e funk. L’idea, il concetto primordiale, non cambia, si trasformano le declinazioni che si possono (e si devono) snocciolare. Qui Nadir mostra un lato a tratti canonico ma, nel contesto in cui viene proposto, quasi avveniristico. Riff di chitarre e unisono tra tutti gli strumenti sono le colonne portanti di ben altri generi e, in tutta sincerità, fanno bene ad auto applaudirsi alla fine del pezzo.

La sensazione che l’intero disco sia una conseguenza precisa e programmata di suoni, parole e impulsi ora fisici, ora psicologici, diventa palese anche per gli animi meno predisposti. Questa è Ka Ou Fe. Tecnicamente ogni LP del mondo dovrebbe rispettare certe regole non scritte. Capita sempre più spesso che ciò non accada, mentre una enorme coerenza e ‘conseguenzialità’ la si trovi in espressioni musicali che nascono senza la velleità di corrisponderne. È il caso proposto dagli Indianizer. Bellezza.
Conclude l’esperienza, al limite della sinestesia, la linea morbida di Aya Puma. Non a caso l’andamento si fa adesso più tranquillo, anche se frizzante sugli interventi di synth, chitarre e campionamenti. Tutto suona come se dovesse accompagnarci ad un chiaro ‘arrivederci’, senza farsi mancare il colpo di coda verso il finale, giusto per stuzzicare l’attenzione.
Nadir, un LP di movimento e percezione emotiva.
Nadir, come accade con opere del genere, raggiunge il suo pubblico provocando le emotività che trascendono l’udito. La musica come veicolo, proprio nel senso figurato. Un mezzo su cui salire per venire trasportati altrove. Al loro terzo LP gli Indianizer riescono a centrare il punto in maniera matura, sia per intenti che per sonorità. L’uso di più lingue li pone nella condizione di usare quella che meglio si adatta al momento, anche dovendole mescolare tra loro.
La verve da dancefloor (intelligente) ed il richiamo a sonorità trasversali, prese da ovunque nel tempo e nello spazio, chiudono il cerchio definendo una circonferenza dal sapore globale e dai principali crismi di definizione europea. Non a caso i quattro ragazzi piemontesi volano tra Germania, Francia e Paesi Bassi nemmeno fosse una qualsiasi subway metropolitana.
La dimensione trasversale “psyco-tropical-beat” degli Indianizer si sublima con i live e Nadir non fa eccezione. Un LP di movimento e percezione emotiva.
Mario Aiello