Diamo inizio alla lunga sfilza di elogi per il progetto Animatronic, che ne prossimi giorni saranno impegnati in una serie di live in giro per lo stivale. Noi abbiamo raccontato e documentato il concerto a Napoli, tenutosi lo scorso novembre. Adesso è tempo di dire la nostra anche su questa prima fatica discografica.
Parlare di progetti musicali al giorno d’oggi è quasi una prassi. Bisognerebbe però delineare alcune differenze di base, al fine di definire cosa sia un ‘progetto’ e cosa no. Ma noi ce ne faremo una ragione, tralasciando ogni approfondimento.
Nel caso specifico, Animatronic si definisce ‘progetto’ solo per semplificare la vita di chi deve scriverci due parole. Con garbo possiamo eludere tutto il resto.
Il gruppo formato da Luca Ferrari alla batteria, Luca Terzi alla chitarra e Nico Atzori al basso è in tutto e per tutto un Power Trio. Ovvero la famigerata composizione a tre di una band (e che band!) che a questo giro rinuncia anche al cantante, relegando la voce e mero adorno stilistico. Urrà!
Ecco dunque che si parla di Animatronic come band, perché tale è. Capito il chi, un trafiletto andrebbe compilato anche sul quando e perché.
La condizione prima è tanto semplice quanto geniale: un dì d’estate 2018 il ‘Verdena’ che preferisco (Luca), si ritrova in sala con un paio di amici musicisti e cominciano a divertirsi. Non molto tempo dopo, quel diletto senza progettualità si trasforma in una vena pulsante di idee e musica. Nasce così, presso le sale dell’ Henhouse Studio, l’album Rec, primogenito figlio di una collaborazione che spero con tutto me stesso possa protrarsi per lunghissimi anni.
Rec è un disco strumentale, a parte qualche incursione vocale, di ben quindici brani e circa cinquanta minuti di riproduzione. Siamo di fronte ad un prodotto trasversale ma dalle idee molto chiare. Matrice rock pura, granitica e prepotente, ma anche sferzate di prog, funk e chi più ne ha più ne metta. Il risultato è sorprendente.
Disponibile dall’8 Novembre per La Tempesta Dischi – quest’anno vera etichetta mattatrice del mercato di settore, dopo le pubblicazioni degli I Hate My Village e Jennifer Gentle, giusto per citarne due – l’album è stato praticamente registrato in presa diretta su nastro. Gli Animatronic hanno in un sol colpo ridotto al minimo l’impatto della produzione ed esaltato al massimo il coinvolgimento prima dei musicisti e poi dell’ascoltatore. Per gusto personale adoro questo tipo di approccio.
Panoramica sull’esordio discografico degli Animatronic: Rec traccia per traccia.
Si parte subito forte sulle note di Teddy Red & Jenny Ride. Pezzo aggressivo e ritmico che sa collegare tra loro le diverse atmosfere sonore proposte. Gli obbligati sulla linea melodica sono una finta guida: il nucleo è tutto nelle terzine del principale riff psicotico.
Con Fl1pper# ci immergiamo nel mondo dei virtuosismi, quelli di chitarra, perlopiù. Va giù che è un piacere senza perdersi sul percorso del ‘chi ce l’ha più lungo’. Particolare spesso sottovalutato in composizioni del genere. Nota a margine, sembra che qui Luca Ferrari si diverta molto più degli altri.
In completa antitesi a ‘l’Urbano Cairo pensiero’ (immaginando di sana pianta quale possa essere in merito), troviamo La7. Il titolo suggerisce parallelismi ambigui, eppure il tema psico-melodico del brano mi è piaciuto troppo per distrarmi da qualsivoglia volo pindarico. Una potenza davvero reale.
Il primo momento di calma apparente gli Animatronic lo raggiungono con 6sbarre s.a.s., grazie alle inflessioni stilistiche in chiave country/blues, ma di quella irriverenti. Il senso di sospensione si trascina fino all’obbligato della parte centrale del brano. Qui si possono addirittura sentire, in sottofondo, il conteggio delle pause e il vibrare fievole dei charleston. Dettagli che appassionano, a mio modesto parere, anche quando inficiano il silenzio. Infine un tondo e coinvolgente isterismo emotivo per una chiusura aperta e partecipativa.
Formula, in poche note, rappresenta l’estensione musicale di un’idea o un pensiero connessi ad interazioni precise. Grinta in pillole. A dimostrazione che si possono raggiungere determinati concetti senza prenderli troppo alla lontana.
La sfumatura prog maggiormente delineata in Rec si esprime nei sei minuti e passa di Crossing. Lasciando da parte i nomi altisonanti del progressive, che scioccamente ci ripetiamo come un mantra per giustificare alcune scelte poco aperte, si può dire che in Italia, in tal senso, abbiamo finalmente dei fieri rappresentanti: qualcosa che non sia solo guscio estetico o estremismo concettuale, ma soprattutto energia e idee funzionanti.
Tin Tin è naturale conseguenza del brano precedente, meno incravattata. Flusso oscillante tra perno melodico e pendolo efferato.
Un tempo si chiamava B-side, oggi il concetto è quasi svanito. La seconda metà di Rec mette i puntini sulle i, qualora fosse stato necessario, illuminando un altro aspetto della vena artistica di matrice Animatronic: l’attitudine oltre il rock.
Da qui in avanti gli elementi di ispirazione saranno più semplici da individuare, complice il contesto di alcuni brani, orientati a manifestarsi con maggiore semplicità per ciò che sono. In Cubo, in quest’ottica, è lo spartiacque per antonomasia. Brano pieno di tensione che si risolve su scale dal richiamo arabesco.
Il passo verso la sintassi musicale che porti alla metafora è davvero breve. Gli Animatronic la abbozzano con Ghostrek. Cruda e decisa quando scollina, nonostante le quasi imposte fasi arpeggiate che, però, alternano la spiccata verve impressionista degli strumenti.
Zabran si può tradurre banalmente così: idioma funk, aspetto snello e longilineo, ma costituzione ‘ossa grosse’ da rockettari fatti e finiti. Sempre e comunque con la consapevolezza di chi sa cosa deve fare e come deve farlo.
Prosegue la digressione stilistica. Seitan: un minuto e mezzo, un trafiletto accorato che, dato il titolo, restituisce al glutine una certa dignità, troppo spesso osteggiata dalle ideologie alimentari, ma anche dall’ingordigia di coloro che ne ignorano le proprietà.
Segue Fuori Di Nastro scandita da un blocco di suoni ruvidi, disposti armonicamente su un tappeto arricciato.
La ‘deriva’ funk si sublima adesso, il brano si intitola Fanki. Solo un caso? Oltre quanto suggerisca il nome, non mancano le fasi sospese e l’energia, ormai chiare componenti della spina dorsale-musicale del disco Rec. Si percepisce il coinvolgimento, tipico del genere, ma anche stavolta i tre musicisti sanno andare oltre, virando verso il classico.
A meno uno dalla fine gli Animatronic piazzano quello che è probabilmente il pezzo con la linea armonica e melodica più finemente tratteggiata, DCP. Facile anche per gli orecchi meno avvezzi a tante inflessioni di genere. A questo punto dell’LP ci sta tutto, anche perché se si vuole trovare il pelo nell’uovo, andando a scomporre gli intermezzi non basterebbero comunque la calcolatrice scientifica e dei buoni rudimenti di trigonometria per venirne a capo. Per dire: “anche se nel contesto appare più semplice, non è detto che lo sia sul serio”.
Conclude l’esperienza Tronofobia. Summa maxima dell’Animatronic pensiero. Qui il sentore di modernità è evidente, palese, limpido, accecante. Soprattutto lo si apprezza nel connubio tra impostazione strutturale e scelta di suoni.
Era da tempo che non si assisteva ad un esordio tanto fragoroso.
Per quanto sia davvero poco utile usare il termine ‘esordio’ nel senso stretto del significato, tecnicamente Rec lo è. Sì, ognuno dei tre componenti ha un’esperienza tanto vasta da riempire pagine e pagine di critica musicale, però siamo di fronte ad un’opera ‘nuova’ che nel Belpaese, quando ci sono, fanno fatica ad emergere.
Nella selva oscura e oscurantista di trap, indie, e compagnia cantante, quando ci si ritrova ad ascoltare cotanto Rock, in senso lato e totalizzante, bisogna solo ringraziare e godere dei frutti. Ogni commento sarebbe superfluo.
Animatronic. Rec. Grazie.
Mario Aiello