Proprio in questi giorni cade il decimo anniversario della prima volta che ho incrociato gli Zen Circus nel mio personalissimo percorso alla scoperta dei gruppi appartenenti al panorama indipendente nostrano.
Fu una figata, ed una folgorazione nei confronti di una tra le realtà più autentiche e d’attitudine muscolare di quella scena che non c’è più, perché mutata in qualcosa di lontano e decisamente diverso, sia sul versante delle pubblicazioni discografiche che per la dimensione live, dolorosamente azzerata dal Covid.
I dischi, almeno per il momento, si continuano a pubblicare, ed a due anni di distanza dal precedente “Il fuoco in una stanza” ecco i tre toscani (orgogliosamente pisani) tornare alla carica con un nuovo disco dal titolo “L’ultima casa accogliente“, firmato Polydor/Universal.
The Zen Circus – L’ultima casa accogliente
Il disco numero 11
Reduci da una partecipazione a Sanremo, una raccolta di singoli che fa il punto sui più recenti venti anni di carriera ed un romanzo anti-biografico, ecco una nuova scorribanda sul pentagramma, perpetrata in nove episodi. Di certo non la tracklist più estesa del loro corposo lascito creativo, ma con una scaletta corta risulta impossibile non pensare ad “Andate tutti affanculo“, considerato da molti l’album più valido della band.
Ed il collegamento che annulla undici e più anni di distanza è rinforzato dalla opening track, selezionata anche come secondo singolo. “Catrame”, ci ricorda che per Appino “tra un MS e l’altra se n’è andata l’infanzia“. Lui si presenta a voce nuda evidenziando qualche limite sul cantato, che gli perdoniamo con piacere da oltre due decenni.
In verità, non è mai stata la qualità tecnica a far innamorare i fan del Circo Zen. In tale ottica il primo brano dispone egregiamente l’ascolto lasciando un concreto sentore di power pop — la strada che vuole percorrere la band mettendo da parte le rusticità punk che hanno figurato molto bene in determinati episodi.
I problemi sorgono alternando le varie canzoni che compogono l’album: la sensazione generale è di un disco molto suonato, con elettronica a tratti troppo invasiva ed un nucleo testuale (firmato da un artista che ha vinto la Targa Tenco per la miglior opera prima) poco ispirato, dove ritornano spesso e volentieri i rapporti con le figure genitoriali, i trascorsi del quotidiano, la religione e tutto quell’immaginario che di certo non scopriamo oggi, ma appare scevro di mordente e troppo incline al soliloquio.
Si salva dalla palude “Bestia rara”, che da un lato osa troppo sul versante strumentale ma convince con un testo vivido, che ha qualcosa da dire riguardo la vita in provincia di una giovane donna poco allineata agli usi e costumi più anonimi.
La venatura di cantautorato orchestrale esplode nella title-track, un congedo di quasi sette minuti dalle sonorità validissime (come in tutto il lavoro, per una produzione discografica ineccepibile e curata in ogni dettaglio del suono) ma che semplicemente…non suona Zen.
Perché fare un disco ogni due anni?
Ho la sensazione che gli Zen Circus siano incastrati in una spirale le cui scorie tossiche circoleranno nell’organismo creativo ancora per un po’. Dal 2014, un disco ogni due anni; nell’anno tecnicamente “di pausa” arriva la chiamata a Sanremo 2019, che rende imprescindibile la release di un prodotto discografico. Ne viene fuori una raccolta con due inediti (uno presentato alla kermesse di febbraio) ed ecco la firma con la Universal ed il conseguente long play da pubblicare. Senza se e senza ma.
Peccato che la lista dei senza sia lunga.
Rispetto l’idea artistica attorno “L’ultima casa accogliente”, ma qui non c’è rock, non c’è punk, non c’è folk, non c’è multilinguismo (nel corso della loro carriera, hanno firmato canzoni in italiano, inglese, francese e..serbo) e, cosa ancora più importante, non c’è quella sana follia che portava a saltar fuori dalla trincea per spezzarsi le ossa per amore.
Vita ed opinioni, proprio come quelle di Nello Scarpellini (gentiluomo al quale dedico sempre un pensiero affettuoso), ma credo sia necessario approcciare un momento di riflessione e capire cosa farne di questo progetto. Una volta il manifesto era sintetizzabile in tre parole: folk punk rockers*, predicate come un mantra attraverso tour che per chilometri, sudore e fatica sembravano più missioni da apostoli che perfomance promozionali integrate nel music business.
Appare tutto stanco, sgonfio dalla solita carica simile ad un petardo piazzato lì dove non batte il sole. La incasso con dispiacere sperando che sia solo una fase transitoria. A risentirci, Zen, per un ritorno di gran carriera.
*Senza il link al brano, viene meno il fantastico gioco di citazione. C’è una canzone dal secondo disco che ha questo titolo, purtroppo non è reperibile sulle piattaforme digitali, sono a disposizione dei lettori che vogliano ascoltarla.