Se dico Of Monsters And Men forse solo gli appassionati sapranno a chi, ovviamente, sto riferendomi. Se potessi mettere qui una pubblicità di qualche anno fa di una nota compagnia telefonica, scommetto ciò che volete che a quel punto ognuno direbbe: “ah, si, ho capito chi sono”. Magari dopo approfondiamo. Magari no.

Gli islandesi dal fare indie pop, indie rock, folk e chi più ne ha più ne metta, sono ormai giunti al terzo lavoro discografico, e si percepisce una certa maturità. Fever Dream è il titolo della loro ultima fatica, pubblicata lo scorso 26 Luglio per Republic Records, costola della major Universal.
Undici canzoni che riprendono il punto esattamente dove si è concluso il precedente LP Beneath The Skin aggiungendo, però, un velo in più di malinconia. Clima tendenzialmente non troppo impegnato, solo nella forma, e suoni che inducono vibrazioni positive. Questo è quanto accade al principio e solo al principio. In seguito la sfumatura uggiosa dei Of Monsters And Men prende via via una forma sempre più ingombrante, accompagnata da forti introspezioni personali e caratteriali, confronti sentimentali e tematiche psicologiche. Mancano quasi del tutto le leggende islandesi e storielle della tradizione al limite del folklore (in senso buono) a cui ci avevano abituati con modesto successo.
Tutto ciò, più qualche altra cosina qui e là, ci aspetta durante il lungo ascolto del disco: ben quaranta minuti circa di riproduzione. E qui, per stemperare perché serve veramente, ci starebbe benissimo la più nota esclamazione della Signorina Silvani interpretata dalla immensa Anna Mazzamauro, ma lascio a voi il gioco mnemonico.
Fever Dream: Panoramica sulle tracce.
Apre le danze il singolo che ha anticipato l’album, si tratta di Alligator, presentato in Maggio prima con un foto/lyrics poi con un video con tutti i crismi. Un tripudio di suoni, non a caso poco fa ho usato le parole “vibrazioni positive”. Ogni cosa si esprime nel suo spazio, rendendosi complementare a questo o a quel tono in modo alterno, quando necessario, lasciandosi tra loro la giusta distanza, un reale intervallo. Regina della festa la voce di Nanna Bryndís Hilmarsdóttir. Un pop suonato con tale maestria che in Italia pare essere tabù, come negli anni cinquanta.
La forza di Of Monsters And Men sta anche nell’alternanza tra i cantanti, dove lui, il buon Raggi, è prima una contro voce poi quella solista. Così prende il via la più tranquilla Ahay. Mi sento di non esagerare dicendo che trattasi di nulla di trascendentale, anche per il testo davvero non troppo impegnato. La Toda Joya (su per giù) di Alligator si è già spenta e da questa morte prematura, lo anticipo, non mi riprenderò mai più.
Segue la introspettiva Róróró. Minimalista nella descrizione musicale al fine di promuovere una messa a fuoco sulla voce femminile che si insinua nella mente di chi ascolta, forte di alcuni passaggi melodici e dei contrappunti in veloce falsetto.
Waiting For The Snow. Qui ho fatto cortocircuito. Già il titolo mi coglie impreparato, mentre scrivo ci sono quaranta gradi all’ombra ed un’umidità nell’aria del 70%. Si può morire sciolti nel proprio sudore da un momento all’altro e mi trovo davanti una canzone che si intitola “aspettando la neve”? Mi sa di presa per i fondelli, soprattutto in virtù dell’interpretazione piano e voce struggente, malinconica, tanto da sembrare di invocarla ‘sta benedetta neve, più che attenderla. Comunque, temi d’amore e ripercussioni personali. Notazioni e quesiti a cui la neve, cari Of Monsters And Men, comunque non darà risposta. Per fortuna qualche dinamica cresce via via che la canzone progredisce.
Torna un po’ di ritmo con Vulture Vulture e, nonostante qualche contatto di troppo con Florence And The Machine, il brano cambia marcia quando Nanna rientra in scena da primadonna quale è.
Il secondo singolo, pubblicato poco prima dell’uscita di Fever Dream, è Wild Roses. Su questa scelta non posso far altro che manifestare un certo dissenso: il pezzo non lascia chiavi interpretative in alcun ramo di approfondimento. Qualcosa si cela come di consueto nelle pieghe del testo ma, a questo punto, per ripicca faccio orecchie da mercante e vado fieramente avanti. Potevano far leva su altro ma tant’è.
Giro di boa. Vento contrario.
Stuck In Gravity è completamente intrappolato nel suono onomatopeico della batteria elementare. Quel “tum – chà” che a volte invece di semplificare le cose le complica. Molte parole, poche suggestioni. Per fortuna un raptus espressivo riesce nell’ultimo minuto a saggiare il pubblico quanto in verità avrebbe potuto corrispondere in termini di coinvolgimento. Meglio tardi che mai.
Sleepwalker si traduce, forse troppo banalmente, in un interessante intreccio di voci. La sublimazione avviene nel ritornello, nonostante proprio nel refrain questa caratteristica vada scemando.
È il momento di Wars che a dispetto del titolo è una canzone quasi dance con toni più ‘allegri’ (ma prendiamola con le molle). D’altronde il terzo disco dei Of Monsters And Men ha una componente non trascurabile di ossimori musico-culturali. Però non è colpa di nessuno, sia chiaro. Non sono riuscito a formulare pareri che abbiano una testa ed una coda perché da quando è partita non ho fatto altro che pensare a quale commercial fosse correlata. Non ne sono sicuro, magari è solo una sensazione, o meglio, una suggestione. Per fortuna almeno torna a farsi sentire il basso, dato quasi per disperso nella prima mezz’ora di riproduzione.
Penultima tappa con Under A Dome. Riesco a dire solo due parole: “onirica” e “campionamenti”. Se voi ne avete di altre, mettetele assieme e fatemele leggere.
Fever Dream si congeda con carattere e sorrido al fatto che molto dipenda dalle sonorità anni ottanta a cui si ispira.
Ho capito una cosa…
Tutto ciò che oggi è etichettato come ‘indie’ è invece il pop più mainstream che esista. Lo sottolineo ancora una volta, ‘pop’ non è offensivo è descrittivo. L’indie è morto chissà quando, ci è rimasta solo la fuorviante dicitura e non c’è nulla di male.
Un buon disco l’ultimo dei Of Monsters And Men, sa coniugare maturità artistica e sonorità ormai tipiche della band. Ti rendi conto che sono loro ma al contempo ti districhi nei vicoli di alcune sfumature non proprio attese.
Comunque la canzone a cui facevo riferimento ad inizio articolo è Litte Talks. A buon rendere.
Mario Aiello