Se siete entrati nella scena desert/stoner californiana di Joshua Homme e compagnia quando un po’ di album della serie Desert Sessions erano già usciti, è possibile che vi ci siate avvicinati come ad una sorta di segreto iniziatico da scoprire piano piano e custodire gelosamente. Una vagonata di mixtape composti e registrati interamente al Rancho de la Luna nel deserto di Joshua Tree da un cast sempre mutevole radunato dallo stesso Homme. Un mucchio selvaggio in cui era possibile trovare pezzi di Queens Of The Stone Age e Kyuss, nomi come PJ Harvey e Mark Lanegan, musicisti di oscure formazioni del deserto da approfondire voracemente.
Quei dischi erano una sublimazione di tutto quello che era la ‘Palm Desert scene’, in cui quel sound fluiva libero da vincoli e pianificazioni, dall’idea classica di ‘album’. Lì dentro, i fan dei QOTSA potevano scoprire anche quanto del sound delle Regine era stato raffinato dal magma delle Sessions, in cui addirittura si ritrovano molti classici della band in versione grezza (‘Avon’, ‘…Millionaire’, ‘Hanging Tree’, ‘I Wanna Make It With Chu’, ma la lista potrebbe continuare).
Desert Sessions 11&12
Gli ultimi due capitoli delle Desert Sessions sono usciti la bellezza di 16 anni fa. In questi 16 anni i QOTSA hanno sfruttato il loro momento di grazia artistica e commerciale, quello di ‘Songs For The Deaf’ e Lullabies To Paralyze’, pubblicato un album poco compreso (‘Era Vulgaris’) e intrapreso un percorso che definire “commerciale” sarebbe stupido, ma che ha sicuramente visto un ammorbidimento del loro sound e una virata verso destinazioni inedite. Virata che ha prodotto un album particolare e interessante, ‘Like Clockwork’, e un lavoro dal sound non troppo convinto che è l’ultimo ‘Villains’.
Queste nuove Desert Sessions 11&12, ‘Arrivederci Despair’ e ‘Tightwads & Nitwits & Critics & Heels’, riprendono il discorso più o meno da dove era stato interrotto, portandoci a qualche lustro fa. D’altro canto, in questa incarnazione della superband si riflette anche il nuovo posizionamento di Homme nella mappa celeste dello stardom musicale: meno rocker del giro desert/stoner, e dentro Billy Gibbons (ZZ Top), Les Claypool (Primus), Mike Kerr (Royal Blood), il comico Matt Berry, Jake Shears (Scissor Sisters), le batteriste Carla Azar e Stella Mozgawa (Warpaint), la sconosciuta Libby Grace.
Eppure il copione è più o meno quello classico, a dimostrare che anche cambiando gli addendi ‘è la somma che fa il totale’ e l’imprinting made in Homme delle Desert Sessions è incancellabile. C’è il momento più tipicamente QOTSA, una boccata d’aria fresca per chi ha nostalgia del loro vecchio sound, con la doppietta ‘Noses in Roses Forever’ e ‘Far East’. La prima è una classica cavalcata guitar-driven che potrebbe essere uscita dalle Session 9&10, ma anche dai quasi contemporanei ‘Lullabies…’ e ‘Them Crooked Vultures’, con un Homme in grande spolvero e quell’aggiunta di spirito cazzone proprio dei mixtape del Rancho (la follia di equalizzazione verso la fine). La seconda è un gioiellino strumentale di Palm Desert sound che richiama direttamente tracce come ‘Lightning Song’ da “Rated R”, ad Alain Johannes o ai mitici ‘Yawning Man’.
Ci sono le divagazioni rispetto al canone Homme, come il sensuale robot-blues elettronico (che torna prepotentemente Queens nel bellissimo finale) ‘Move Together’ affidato a Billy Gibbons degli ZZ Top, il missile punk di ‘Cruficire’ con Mike Kerr dei Royal Blood, e l’immancabile slot per il brano di cui si poteva fare a meno. Questa volta tocca a ‘Chick tweez’, sorta di divertissement post-pop con una voce pseudo-scandinava, quella di Töôrnst Hülpft, dietro cui si vocifera ci sia un Dave Grohl sotto mentite spoglie.
A proposito di nomi sconosciuti, l’unica voce femminile delle otto tracce è quella di Libby Grace. Ad ora non si sa molto su di lei, ma il country blues cupo e indolente di ‘If You Run’ è forse il momento migliore del disco anche grazie alla sua ottima interpretazione. È impossibile non pensare ad altri momenti ‘blu’ del passato delle Sessions, quelli con PJ Harvey alla voce. Il paragone è difficile da sostenere, ma Libby e ‘If you run’ rientrano più che dignitosamente nel solco glorioso di ‘There will never be a better time’, cantata da Polly Jean nel capitolo 9&10.
La seconda sorpresa è legata al nome più fuori luogo rispetto agli altri e alla storia delle Sessions, quello di Jake Spears degli Scissors Sisters. Del resto Spears è amico di vecchia data di Homme, già ospite in Like Clockwork, e il morbido funk psichedelico di ‘Something you can’t see”, un po’ Tame Impala, un po’ ultimi QOTSA, è uno dei vertici del disco.
La chiusura è affidata al titolare della baracca con l’emotiva ‘Easier Said Than Done’: una ballata onirica e sospesa simile negli intenti a ‘Kalopsia’ ( ‘Like Clockwork’) e forse anche meglio riuscita.
Il ritorno dopo 16 anni
Certo, otto tracce per trenta minuti di musica dopo 16 anni non è molto, e d’altronde nessuna di queste otto è destinata a lasciare il segno come praticamente tutto quello che Homme e soci hanno prodotto fra 2000 e 2005. Però ‘Arrivederci Despair’ e ‘Tightwads & Nitwits & Critics & Heels’ hanno il grande pregio di riuscire a ricreare, anche se in versione più ‘ripulita’, un sound di cui parecchi sentivano la mancanza. Nel farlo, riescono anche ad esplorare altre strade in maniera, forse, più puntuale dell’ultimo episodio della ‘band madre’. Speriamo che questa resurrezione del progetto, su cui forse in pochi avrebbero scommesso, non sia solo un’apparizione fugace.
Sergio Sciambra