Diciamolo subito: Taylor Swift a questo giro non l’ha propriamente indovinata.
Il 24 Luglio 2020 è uscito il suo ultimo lavoro Folklore. A meno di un anno dal non mirabolante ma pur sempre apprezzabile Lover. Era strettamente necessario? Il quesito attanaglierà chiunque deciderà, con lucidità, di affrontare la lunga riproduzione: sedici canzoni da quattro minuti circa ognuna. Il problema dove sta? Vi starete chiedendo. Ve lo dico più avanti ma premunitevi già da ora di doppia pazienza.
Intanto Taylor Swift è tra i pochissimi big che ha deciso di mettersi in discussione durante il periodo di emergenza Covid. Onore a lei. Ma a undici mesi dal precedente sforzo produttivo, di cosa è realmente figlio questo nuovo Folklore? Non siamo più negli anni settanta, quando in due anni c’era chi di dischi ne sfornava tre e mezzo. La svolta intimistica della bella cantante non ci lascia dubbi: l’album gliel’ha scritto, composto, arrangiato ed interpretato lo sconforto del lockdown e l’empatia per le migliaia di morti nel mondo. Non c’è altra spiegazione.
Folklore: Inversione di tendenza o semplice scivolone? Taylor Swift non deve spiegazioni ma qualche indizio aiuterebbe.
Taluni hanno definito la scelta stilistica come una sterzata decisa verso il folk americano più conosciuto e “vangelizzato” oltre oceano. Secondo me stiamo assistendo a un testacoda fatto col freno di stazionamento, in autostrada e contromano.
Tutti gli idoli a stelle e strisce (anche i grandi nomi) hanno prima o poi raggiunto il momento in cui quasi rinnegano il proprio operato, lanciandosi a capofitto in accorate interpretazioni e scritture in chiave chitarra acustica, pianoforte, archi e compagnia cantante. Nel caso di Taylor Swift è davvero un passo troppo banale per avere un certo effetto, sia di pubblico che di critica. Nonostante sia prodotto egregiamente nonché suonato e cantato anche meglio. Non dico sarebbe stato opportuno un crossover totale in chiave Poppy, giusto per citare un estremo, ma vagliare altre vie avrebbe giovato.
In tutta onestà Folklore è un titolo fuorviante. Gli elementi ci sono, anche lo spirito si allinea al concetto, ma non vi è poi tanto folklore in senso stretto nell’opera. Il richiamo non arriva da lontano. Molto deriva dalla strada già tracciata in alcuni brani del precedente Lover. Anzi, proprio l’omonimo singolo fa da pioniere a quanto proposto qui.
La non più fanciulla cantante della Pennsylvania non ha bisogno di elogi per la sua voce. Sempre precisa e gradevole. Ne dà dimostrazione, ancora una volta, in The 1. Segue a ruota il singolo di lancio Cardigan, che si destreggia tra bucolici scenari, strumenti suonati e campionati (pochi ma buoni).
L’idea che l’intera opera sia un po’ lenta e con poca grinta era nell’aria. Ogni canzone ne fa una decisa quanto ulteriore sottolineatura. The Last American Dinasty si aggrappa a una storia da raccontare attraverso il testo, ma l’andamento musicale non farà incuriosire nessuno nella ricerca e traduzione. Madrelingua esclusi. Canzone pop senza mordente. Moscia. La feat dei Bon Iver in Exile delude tutti (fan dell’una e dell’altra “fazione”) ma sferza lievemente l’atmosfera in un esercizio corale che resta ancorato al compitino da svolgere. La dice lunga sull’entusiasmo che ne deriva e siamo solo al principio.
Tripletta di scudisciate a schiena libera con My Tears Rochochet, Mirrorball e Seven. Se la prima delle tre propone fragile speranza di redenzione con un’aria suggestiva e tenue ma decisa, le altre due devastano tutto con trascurabilità e soprattutto “sussurri”. Seven non solo l’ho già sentita altrove, o mi ricorda qualcosa di conosciuto, ma mi fa pensare che sono passate sette canzoni e Taylor Swift sta ancora sussurrando cose. Basta!
Piccoli spunti di gioia e perseveranza, con un sobbalzo appena accennato, giungono con August. Sarà anche la prossimità del mese estivo per antonomasia. Giusto il tempo di assuefarsi che This Is My Trying ci ricorda che spesso l’introspezione è il vento di maestrale per le ali dispiegate dell’animo più recondito, ma anche il mazzuolo dalle estremità dolci che batte forte sui padiglioni auricolari. Senza tirare in ballo cosa accade nel frattempo alle gonadi.
La deriva è ormai inevitabile e mi rendo conto che, anche in seguito a diversi ascolti, Folklore non potrà migliorare nel mio malsano immaginario. Armati di supponenza in salsa di preconcetti di qualsiasi natura, è facile arrivare alla conclusione che con Illecit Affairs, canzone numero dieci, si raggiungono più o meno quaranta minuti di inconcludente e forzosa emancipazione di chissà chi e chissà cosa. Il problema non è nei contenuti (comunque sotto tono) ma nella forma davvero asfissiante in cui vengono proposti. Variare l’offerta ha sempre fatto bene, dalle canzoni dello Zecchino D’Oro fino alla lirica ottocentesca.
Invisible String rappresenta oltre ogni ragionevole dubbio uno dei punti più alti raggiunti da Taylor Swift in Folklore. L’arrangiamento arpeggiato a metà strada tra chitarre forse classiche o ukulele soprano è piacevole e fa da contorno ad un pezzo tutto sommato piacevole. L’autrice si riaffaccia timidamente e da lontano nella sua comfort zone. Non quella delle hit Pop planetarie, ma quella degli ipotetici B-Side di buona fattura. Le differenze si percepiscono all’istante e dunque, perché ostinarsi?
Mad Woman: non tutti i buchi riescono con la ciambella attorno. Non scherzo. Per fortuna la stesura migliore arriva subito dopo con Epiphany. In un album di canzoni simili se ne inseriscono una o due al massimo. Qui, con questo taglio, facciamo prima a contare le difformi.
La vena folk, quella vera, almeno per suoni e arrangiamento, fa capolino agli sgoccioli dell’opera. Betty ci fa annusare i gialli campi di grano e sentire sulla testa un leggero cappello di paglia. Tutto tradotto in chiave Taylor Swift. Meglio precisarlo.
Chiudono l’esperienza Peace e Hoax. La prima interessante ma nulla più, la seconda degna conclusione per la selezione. Meno male che è finita.
Dopo i 16 brani di folklore ci vuole una sternale di adrenalina per riprendersi.
Spiace essere così acidi nelle valutazioni, dopo il buon lavoro di Lover non mi aspettavo un LP così. Scritto bene, suonato bene, cantato bene. Eppure è di una noia mortale. Tanto da non stuzzicare nemmeno lontanamente l’idea spulciare la comprensione dei testi, minimo sindacale. Taylor Swift dovrà approfondire meglio il tema se vorrà proseguire su questa strada, o il futuro non sarà tutto rose e fiori. I fasti di 1989 sembrano un lontano miraggio.
Folklore in versione Deluxe: Taylor Swift aggiunge una sola canzone The Lakes alla proposta sonora, ma si sbizzarrisce sulla diversità visiva. Otto versioni distinte, ognuna con grafica e fotografia a sé stante, diversa dalle altre.
È notizia di queste ore la pubblicazione in video lyrics del nuovo inedito che va ad accrescere la proposta musicale all’interno dell’album Folklore, ora in formato Deluxe. Disponibile dai primi di Agosto anche in vinile. Il brano si intitola The Lakes e non si discosta nemmeno di un millimetro rispetto a quanto già ascoltato nelle sedici canzoni già note al grande pubblico.
Nonostante la critica abbia accolto con entusiasmo l’ultima fatica dell’autrice di Cardigan e le vendite abbiano comunque raggiunto numeri considerevoli, nemmeno questa nuova The Lake riesce a scuotere le acque basse in cui l’intero progetto si sta arenando. L’LP resta monotematico, per sonorità e per argomenti. Può piacere o meno.
Siamo certi della bontà delle idee e della produzione, tuttavia il gusto critico che si uniforma premiando senza reali meriti il clima un po’ depresso e assuefatto in Folklore non può essere considerato come una coccarda da sfoggiare. Taylor Swift può fare di più, anche se scrivere un disco in lockdown per la pandemia da Covid ha appiattito l’estro di quasi tutti gli artisti.
Mario Aiello