“La Partita”, una vita intera racchiusa in novanta minuti

È La Partita il film più chiacchierato del momento. Diretto da un esordiente alla regia di lungometraggi, Francesco Carnesecchi, la pellicola è uscita nelle sale cinematografiche il 27 febbraio scorso. Inoltre, nel 2018 aveva già conquistato la giuria al Rome Independent Film Festival.

Ma, come tutti sappiamo, l’emergenza sanitaria e il consecutivo blocco di tutte le attività – specialmente quelle culturali che prevedono l’assembramento di più persone – hanno portato alla sua sospensione. In aiuto a quest’opera è arrivato Netflix, che, nel ruolo di “Paladino della Giustizia”, ha accolto il lavoro nel suo palinsesto, programmandone l’uscita per il 1 settembre.

Tanti i motivi per cui il pubblico si è dimostrato particolarmente interessato. Prima di elencare le peculiarità che hanno reso La Partita un valido modo per trascorrere novanta minuti del nostro tempo davanti al piccolo schermo, andiamo a scoprirne la trama.

LA PARTITA – TRAMA

Novanta minuti, senza considerare i tempi di recupero, i supplementari e gli eventuali rigori. Questo il tempo in cui si svolgono le vicende che hanno come scenario principale un campo da calcio, decisamente più grigio rispetto al verde a cui siamo abituati.

Quel campo incolto, circondato da costruzioni industriali di periferia, ricopre il ruolo da protagonista. Proprio qui si alternano le vite di Claudio Bulla (Francesco Pannofino), un allenatore che nel corso della sua carriera non ha mai potuto alzare una coppa. Ritroviamo, poi, il presidente del team, Italo (Alberto Di Stasio, famoso soprattutto per aver interpretato Sergio nella serie televisiva di successo Boris), che ha scommesso tutti i suoi averi sul match di quel giorno. E, infine, i ragazzi pieni di speranze, destinate, purtroppo, a non concretizzarsi. Tra questi c’è il giovanissimo Antonio (Gabriele Fiore) che non vuole smettere di crederci.

UNA VITA INTERA RACCHIUSA IN NOVANTA MINUTI

Come dicevamo, la storia raccontata all’interno della partita si svolge in novanta minuti. Il tempo necessario per scoprire le identità dei protagonisti. Ovvero uomini comuni, con sogni ed obiettivi non solo comprensibili, ma anche condivisibili.

Il campo su cui si trovano rappresenta metaforicamente un periodo complesso e negativo dell’esistenza umana. Nessuno dei personaggi, di cui seguiamo i momenti più oscuri, riesce a superare i propri limiti. Tutti restano ancorati e bloccati in sogni che non potranno mai prendere una vera forma. Insomma, una metafora sull’incapacità di realizzarsi nella vita. In una società che offre sul piatto d’argento la vittoria ai più forti, far parte della cerchia dei deboli non vede altra via d’uscita se non l’accontentarsi di essere “inferiori” e “meno bravi” rispetto ad altri individui, probabilmente solo più fortunati.

Italo si ritrova senza una lira in tasca, Claudio non ha mai vinto nulla in vita sua e Antonio, come tutta la sua squadra, sarà costretto a rinunciare alla carriera.

Tutto questo circolo vizioso è una sorta di vortice in cui si viene risucchiati.

I bambini italiani vengono cresciuti da sempre, dai genitori e dalla televisione, con l’aspirazione di diventare un calciatore. Per giunta di enorme fama, senza mezzi termini. La scoperta di non essere in grado di raggiungere un alto livello scaturisce inevitabilmente il senso di sconfitta, di incapacità, e il consecutivo accontentarsi a qualcosa di ben lontano da ciò che si nascondeva nel cassetto magico.

Questo il tema principale che, a mio avviso, rende La Partita una pellicola molto interessante e, soprattutto, drammaticamente attuale. Quel sogno non esiste più. Si tratta solo di puro business. Ma lo slancio di positività c’è e non si vede: nonostante tutto appaia finito, la conclusione con il ragazzo (Simone Liberati) che descrive le sue esperienze con occhi sognanti rivela un’altra faccia della stessa medaglia. Il giovane, inaspettatamente, non ripensa alle ambizioni del suo passato in modo negativo, ma con un’aria nostalgica. E forse è questo il modo giusto di vivere i sogni veri, anche se mai realizzati.

 

 

L’ITALIA, ANCORA PASTA, PIZZA E MANDOLINO? 

 

Uno degli aspetti su cui riflettere è come l’Italia viene dipinta in questo film, che ha come scenario la periferia romana, ormai location di almeno l’80% delle produzioni contemporanee. Tra gli esempi più recenti ritroviamo A Tor Bella Monaca Non ‘Piove’ Mai, di Marco Bocci, e Favolacce, dei fratelli D’Innocenzo.

Roma è tornata al centro dei riflettori, così come il malessere che vivono i suoi abitanti. Il calcio viene ancora ritenuto una ragione di vita. Tuttavia, per dare un tocco d’italianità ancora più sentita (Stanis La Rochelle lo definirebbe un tocco “troppo italiano”) non poteva mancare la nota culinaria.

Nelle prime scene de La Partita il paninaro Umberto, interpretato da Giorgio Colangeli, illustra a due turisti stranieri la ricetta originale dell’amatriciana. Un espediente utilizzato come sorta di linea comica per smorzare la drammaticità di ciò di cui parlerà in seguito. Lascia spazio ad un sorriso, ma è un innegabile cliché, forse non indispensabile al racconto.

La Partita si classifica, dunque, nella categoria di “film sportivi”, sporchi ed autentici. Una visione abbastanza godibile, ricca di spunti di riflessione.

“La Partita”, una vita intera racchiusa in novanta minuti

SI RITORNA A ROMA ANCHE CON LA MUSICA

 

La colonna sonora è stata di certo studiata ad hoc. E non lo dico solo per l’iniziale La dura legge del gol, canzone degli 883, in questo caso cover. Neppure per i battiti finali, invece, in cui il ruolo da protagonista è stato affidato a Noodles dei Colle Der Fomento.

Incisivo più degli altri è il brano di Antonello Venditti Buona Domenica. Nonostante il tema del pezzo sia del tutto diverso da ciò di cui si sta disquisendo, si respira l’aria di quei tempi andati in cui il calcio si giocava solo di domenica e il pomeriggio prima del ritorno a lavoro, oppure a scuola oscillava tra l’amaro e il dolce a seconda dell’esito di quei soli novanta minuti di tempo.

E, in conclusione, se questo elemento ha una carica malinconica ed emotiva molto alta, un compito ancora più nostalgico è quello della radio in sottofondo, che costituisce la voce della verità nell’intera durata di novanta minuti:

“Quello che mi sta dicendo oggi è che un ragazzo non può sognare di diventare un calciatore? Ma i ragazzi non possono sognare?”

 

Assunta Urbano

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