Forse le congiunzioni sono molto più di casualità.
È quantomeno bizzarro, in quest’ottica, che il quarantennale del suicidio di Ian Curtis, leader della band di culto Joy Division, coincida con una delle primavere più tristi dell’ultimo secolo. Un periodo che ci ha portato (e ci sta ancora portando) a fare i conti con il nostro io più intimo, a sentirci irrequieti, insoddisfatti e tutto sommato soli e tristi.
Ne stiamo uscendo? È ancora presto per dirlo, ma l’importanza del ricordo di Ian Curtis sta tutto nella misura in cui impariamo qualcosa da quello che ci succede intorno.
I Joy Division, che furono Warsaw, hanno avuto un’ascesa folgorante nel gotha della musica, forse anche più fugace e brillante della pulsar rappresentata sull’iconica copertina di Unknown Pleasures. Prima di rinascere come New Order, c’è stato il tempo di registrare il secondo disco, Closer, che resta quale congedo di una band che in circa tre anni di attività ha saputo cristallizzare un immaginario onirico fatto di redenzione e lotta dai mali interiori, rendendo di fatto il post-punk una forma d’arte completamente distaccata dai crismi del punk della prima ora.
In tutto questo, il vissuto di Ian Curtis era ben presente e caratterizzante: figlio della working class, sposato prestissimo e con una figlia neonata, affetto da depressione e crisi epilettiche, non era una rockstar o un animale da palcoscenico, anzi. Sul palco qualche volta stramazzava anche al suolo a causa della malattia e degli effetti di luce, ma solo in quella dimensione ed attraverso una presenza scenica spasmodica riusciva ad esorcizzare i suoi malesseri, che l’hanno portato al capolinea a neanche 24 anni compiuti.
La band di Manchester (già nel nome, che ricorda le baracche femminili nei campi di concentramento tedeschi, un riferimento a prendere coscienza della memoria storica) ha espresso ad intere generazioni quanto sia fondamentale, per conoscersi e per comprendersi, non vivere necessariamente di sorrisi e musica spensierata. C’è un tempo dove si può vedere tutto nero, l’importante è comunicarlo e non implodere, arrivando ad atti estremi.
Ci sono canzoni che ti scegli ed altre che sembrano fatte per te come un vestito su misura: io ho subìto la fascinazione dei Joy Division circa dieci anni fa, mi ha aiutato a comprendere la persona che sono ed accettarne pregi e difetti, scoprire quanti altri musicisti che ascolto abitualmente siano cultori di questi due dischi ha permesso di chiudere il cerchio, di riconoscermi e definirmi in un contesto. Approfondire la figura di Ian Curtis è stato un percorso certamente tortuoso ma importante nel mio processo di maturazione, e credo ognuno, ascoltando questa manciata di canzoni, possa trovarne una forma di accrescimento personale.
Sì, non poteva esserci momento più adatto per ricordare Ian Curtis quarant’anni dopo.