The Cave di Feras Fayyad: Un nuovo modo di parlare di Femminismo

Dopo il successo di The Last Man in Aleppo, il regista, sceneggiatore e produttore siriano Feras Fayyad torna a far parlare di sé con la nomination agli Oscar per il docufilm The Cave.

Ambientato nella periferia di Damasco, precisamente a Ghouta, Fayyad ricorda e racconta la drammaticità di un paese straziato dalla guerra civile e ridotto in macerie dai bombardamenti chimici nell’agosto 2013 ad opera dell’esercito di Bashar al-Assad, che ha decimato la popolazione uccidendo quasi 1600 civili innocenti.

The Cave

Il punto di vista è quello della protagonista, Amani Ballor, una coraggiosa quanto giovanissima pediatra che ha scelto di rimanere a Ghouta per aiutare non solo i bambini ma tutte le vittime della guerra. La lacerazione dei luoghi è affiancata a quella interiore della giovane dottoressa, i cui pensieri sono in un equilibrio precario tra il perseguire la vocazione dell’aiutare i più deboli e lasciare la terra natale martoriata dai conflitti. Amani rimarrà in Siria a combattere contro i suoi dubbi perché sa che un giorno ogni bambino guarito sarà un sogno in più che avrà realizzato, come ripete giornalmente.

Si tratta di una pellicola pesante da digerire con scene di sofferenza fisica (come quelle riportate dai feriti nei bombardamenti) e morale. A tal proposito, è interessante osservare come il regista sia stato in grado di suscitare un impatto emotivo e riflessivo profondo, in grado di penetrare la mente dello spettatore, mettendo quasi in secondo piano la crudezza delle immagini e spostando l’attenzione sui pensieri, le lacrime, le paure che, seppur invisibili, sono state così immani da riversarsi nelle platee.

The Cave, Un nuovo modo di parlare di Femminismo

Fayyad è riuscito a narrare non solo il disastro – a tratti apocalittico – della Siria ma ha portato in sala un femminismo nuovo. Una narrazione dell’eroina femminile che, in un contesto fortemente maschilista e scettico nei confronti degli evidenti meriti accademici, è capace di nascondere le sue fragilità e insicurezze e lavorare in un seminterrato (chiamato “The Cave”) privo di tutti gli strumenti necessari ma inteso ugualmente come “ospedale”, come rifugio e casa dei deboli.

Amani Ballor è colei che ingerisce le parole del padre, il quale non si capacita che sua figlia lavori. Il non riuscire a far in modo che alcune infermiere siano assunte, che alcuni pazienti si rifiutino di essere curati da una donna. Amani è colei che ingerisce tutto senza digerire nulla. Quegli episodi le fanno male come i boati dei bombardamenti. In fondo sa che ognuna di quelle pugnalate è un po’ lo sgretolarsi del sogno di bambina, quello di guarire le persone.

Nel vedere il documentario risulta quasi impossibile tracciare un confine dall’Amani attrice e l’Amani personaggio. L’interpretazione è così intima da non potersi considerare tale ma un mostrarsi in tutta la propria storia.

Attendendo la cerimonia dell’Academy Awards ci auguriamo che quest’ultima perla possa valere un ulteriore successo per Feras Fayyad che, comunque vada, ancora una volta è riuscito nel suo obiettivo.

 

Santina Morciano

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