Kieran Hebden, per tutti, Four Tet, è attivo artisticamente da più di vent’anni. Due decenni durante i quali ha contribuito all’evoluzione della scena musicale electro, segnando il passo insieme ad altri artisti che all’alba degli anni ’20 si sono confrontati con una nuova prova in studio di registrazione (su tutti, mi viene da ricordare Nicolas Jaar e Caribou). In questa grossa coincidenza astrale ci entra anche il producer britannico, che ha pubblicato “Sixteen Oceans”.
Sixteen Oceans il nuovo disco di Four Tet
La decima pubblicazione è un traguardo difficile da raggiungere in questa industria discografica moderna. Ad un primo sguardo, notare una track-list di sedici tracce lascia un lieve stupore, mitigato dal palesarsi di cinque skit (o intermezzi) in un ascolto di circa un’ora.
Musica che parte con un piglio sostenuto dai primi minuti: Four Tet ci tiene a dare la giusta pettinata all’ascoltatore mettendo in chiaro le cose fin da subito. Ma è solo un’illusione perché nei paesaggi sonori tratteggiati c’è spazio per brani club-oriented come per l’elettronica downtempo, che sta rappresentando una naturale evoluzione dei crismi più diretti elaborati agli albori degli anni ’10.

Four Tet – Sixteen Oceans (copertina)
Il coinvolgimento di strumenti non esclusivamente riconducibili all’ambito digitale è ormai prassi, ma nel corso degli anni Four Tet non è mai scaduto nel banale, anche quando c’era da comporre in cassa dritta. Emblematica, a riguardo, “Love Salad“, probabilmente la traccia che preferisco. Sette minuti e mezzo dove una ritmica groovy si espande nel cosmo di sintetizzatori, incrociando lo sguardo (nella seconda parte del brano) l’house music. Il manifesto artistico di Four Tet che trova spazio proprio al centro della track-list, orgoglioso e brillante.
Sulla stessa linea la successiva traccia “Insect Near Piha Bech“, mentre cito per il versante più lento (a titolo esemplificativo) “Teenage Birdsongs” e “4T Recordings“.
In realtà, l’unico limite di questo album è il gusto personale, perché fila liscio dall’inizio alla fine regalando una piacevole ora in compagnia di Kieran Hebden e delle sue idee musicali. I sedici oceani che compongono il disco hanno ognuno una propria anima, alcuni fanno scapocciare in modo convinto mentre altri regalano sinestesie sognanti, lasciando l’amaro in bocca solo perché relegati alla quarantena ed impossibilitati a portare il corpo dove la mente finisce, veicolata da queste note.
Ho letto che Four Tet forse sta iniziando a reinventare le proprie idee artistiche del passato. Io penso che arrivare a produrre nuove canzoni così, dopo circa ventidueanni di carriera, significhi avere ancora tanto da dire. E credo ogni artista ci metterebbe la firma. E gli ascoltatori, anche.
Giandomenico Piccolo