“Il buco” è il film d’esordio del regista spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia, vincitore di numerosi riconoscimenti al Festival Sitges 2019, al Festival di Toronto 2019, al Torino Film Festival 2019 e di due premi per Migliori Effetti Speciali (Premio Gaudì 2020 e Premio Goya 2020).
Da alcuni giorni è disponibile in streaming su Netflix diventando tra i prodotti made in Spain più visti e più dibattuti di queste giornate. Gli altri sono Élite e La Casa de Papel, con i quali – per fortuna- Il Buco non ha nulla a che vedere.
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Il Buco – Trama
Ambientato in una strana prigione, il film ha come punto di vista quello del protagonista Goreng (Iván Massagué, il balbuziente ribelle ne Il labirinto del fauno di Guillermo del Toro). Goreng decide liberamente di partecipare ad un esperimento sociale di sei mesi alla fine dei quali riceverà un attestato di permanenza.
L’esperimento consiste nel rimanere in un edificio sotterraneo che si sviluppa verticalmente in piani numerati. A ciascun piano corrisponde un’unica cella con due detenuti (volontari, malati psichiatrici o colpevoli) che condividono un gabinetto, due letti e degli asciugamani. Ogni mese tutti i detenuti cambiano cella (quindi piano) secondo un ordine del tutto casuale. L’unica costante è il loro compagno che, se ancora vivo, sarà lo stesso anche nella cella successiva.
Al centro della prigione c’è il buco rettangolare attraverso cui, una volta al giorno, passa una piattaforma, una sorta di tavola imbandita con i piatti preferiti di ciascun detenuto. La piattaforma si ferma due minuti su ogni livello scendendo verso quelli più bassi e partendo dal piano 0, il livello più alto dove degli chef d’alta e raffinata cucina preparano le pietanze.
Più si scende, più saranno critiche le sorti dei prigionieri che troveranno la tavola senza cibo, divorato da chi ai piani superiori, per paura di rimanere senza il mese successivo, si abbuffa. Infatti, non è consentito trattenere dei viveri o conservarli. In tal caso la cella subisce un drastico cambiamento di temperatura surriscaldandosi o raffreddandosi. L’unico elemento “esterno” che possono tenere nella cella è un oggetto. La maggior parte dei detenuti sceglie un bastone o oggetti da punta o da taglio.
Il buco
Basato su un astuto gioco di simbologie, il film è una critica alla società contemporanea di cui si denuncia il carattere egocentrico e ingiusto.
La gerarchia capitalistica attuale, dove le sorti delle classi sociali sono decise dai ceti abbienti, dai “piani alti”, è ben rappresentata dalla struttura verticale della prigione in cui i detenuti sono disposti su più piani e devono adattarsi alle scelte di chi sta sopra essi.
Enigmatica è anche la primissima battuta pronunciata al piano 0, tra cuochi elegantissimi intenti a preparare i pasti sopraffini per i detenuti:
“Ci sono tre tipi di persone: quelle che stanno sopra, quelle che stanno sotto e quelle che cadono”
Si tratta di una vera e propria gerarchia in cui si lotta per sopravvivere nonostante le decisioni imposte dai livelli superiori. È importante non cadere nel buco, non morire. Ciononostante i detenuti continuano a morire, volontariamente e non, poiché il sistema è fallace. Non funziona perché chi ne fa parte -e cioè i detenuti- lo conducono male.
Il piano 0, infatti, prepara il cibo a sufficienza per tutti ma l’ingordigia porta i prigionieri dei piani alti ad abbuffarsi nonostante siano consapevoli che il mese successivo potrebbero essere loro a capitare nei livelli inferiori. Se solo capissero quanto la moderazione sia importante, nessuno rimarrebbe senza mangiare e tutti, ogni mese, indipendentemente dal piano, sopravviverebbero. È così che dovrebbe funzionare.
“La fame porta sempre alla follia”
È una delle citazioni del film, ed infatti, pur di sopravvivere, si arriva ad ammazzare e mangiare gli altri prigionieri. Non aiuta neppure essere “compagni” di cella. Lo dimostra bene Trimigasi che è pronto ad uccidere Goreng per assicurarsi la sopravvivenza.
Ma tutto ruota attorno a un pericoloso “Mors tua vita mea” attuato su ogni punto di vista: sia quello letterale, che sfocia nell’antropofagia, sia quello metaforico, rappresentando la malvagità e l’egoismo dell’uomo, che si lamenta del sistema non capendo che è proprio lui la parte marcia di esso. Di fatto si farà riferimento, nelle prime battute, al comunismo a cui è spesso associato la parola “compagni”. Nelle vicende del film, i “compagni” di cella avranno tuttavia ben poco di quei principi filantropici che derivano dall’etimo latino “cum panis”, condividere il pane.
“Una dilagante prevalsa dell’egoismo sull’altruismo, attitudine spaventosamente attuale”
D’altronde, viviamo in una società dominata dalla paura -radicata e spesso latente- che emerge con ferocia soprattutto in due casi: nella paura di non avere mai abbastanza e nella paura nei confronti dell’altro.
Nel primo caso ci troviamo di fronte ad una pura antropologia del desiderio. Desideriamo quello che non abbiamo e se lo abbiamo desideriamo di non perderlo. Questa continua inquietudine, che non viene mai appagata, produce effetti pericolosissimi da indurci a gesti estremi e terribilmente egoisti.
Si tratta di una dilagante prevalsa dell’egoismo sull’altruismo, attitudine spaventosamente attuale che l’emergenza sanitaria ha riportato alla luce. Si assiste quotidianamente a vere e proprie razzie nei supermercati, svuotati per paura di rimanere senza cibo (solo per fare un esempio).
La logica dei detenuti è la stessa: sono incuranti del fatto che dopo di loro qualcuno potrebbe rimanere senza neanche un pasto essenziale. In quei momenti, sono geniali le inquadrature che mostrano l’avidità insaziabile che prende vita nelle mani che afferrano i cibi, nei piatti brutalmente svuotati, nelle gote unte.
Nel secondo caso, anche la paura dell’altro assume varie declinazioni nel film come nella vita reale. Il parallelismo più eclatante potrebbe essere quello delle armi. Gli Stati Uniti hanno registrato un vertiginoso aumento di armi e munizioni in seguito all’indizione del lockdown dovuto al coronavirus. Eppure, si trattava (e si tratta) di un’emergenza sanitaria. Perché svuotare -anche- i negozi di armi? Ritorna la citazione “La fame porta sempre alla follia”, risposta perfetta per indicare come si abbia paura e si sia consapevoli che il non avere ciò di cui si ha bisogno (in questo caso il cibo) può indurre l’uomo a diventare un ladro o, nel peggiore dei casi, un assassino. Per paura che sia violato il proprio spazio (la casa, un esercizio commerciale o il proprio corpo), la gente si arma.
Nel film ciascun detenuto poteva portare un oggetto: Trimigasi e la maggior parte dei prigionieri sceglieranno un’arma (lui un coltello, Baharat una fune, altri dei bastoni), Goreng un libro, Imoguiri un cane.
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“Cultura: l’unica vera arma possibile per diventare soggetti attivi”
Trimigasi è la figura per eccellenza simbolo di una società piegata alla logica consumistica. Dirà infatti di aver acquistato il coltello perché sponsorizzato in tv come migliore della versione precedentemente comprata. La sua è una vera e propria venerazione nei confronti di un oggetto materiale che lo rende cieco e insensibile.
D’altro canto, giudicherà futile il “Don Chisciotte della Mancia” di Miguel de Cervantes Saavedra scelto da Goreng, tanto che esordirà con “Questo non è un posto per un amante di libri”. Effettivamente, se la prigione è il simbolo della contemporaneità, non è difficile capirne il motivo.
Siamo di fronte a due paradigmi diversi con la prepotenza e l’istinto in antitesi alla ragione e all’istruzione: la forza bruta contrapposta alla forza dello spirito.
Spesso ricorrono frasi come “Con la cultura non si mangia”, “Le materie umanistiche non servono a nulla”, “I licei classici devono essere chiusi”. Se da un lato essa non trova un alto riscontro economico, pratico e materiale, dall’altro però si rivela l’unica vera arma possibile per diventare soggetti attivi. Esempio ne è Goreng che, grazie al bagaglio culturale e all’ingegno derivatone, riesce a non accettare con passività le scelte dei piani alti e comprende la necessità di sovvertire il sistema e decodificarne il messaggio.
Per di più, il libro scelto è di per sé simbolico in quanto il protagonista, Don Chisciotte, combatte contro i mulini a vento per cercare di scardinare il sistema corrotto, ma nel farlo diventa anch’egli corrotto. È proprio ciò che accade a Goreng che, nella discesa ai livelli inferiori con Baharat, si serve dell’autorevole violenza, quasi tirannica, per imporre ai detenuti la giusta dose da dover mangiare.
“Le persone si convincono con la merda, non con la solidarietà”
I modi utilizzati da Goreng sono tuttavia gli unici possibili. La gentilezza e i toni pacati utilizzati da Baharat non sono serviti. E neppure la diplomazia di Imoguiri che sperava nella “solidarietà spontanea”.
La sua figura è estremamente simbolica. Imoguiri, seconda compagna di cella di Goreng, porta con sé un cane, Ramses II, con il quale fa a turno per mangiare così da evitare di “usurpare” la razione di un altro detenuto. È la metafora dell’attaccamento morboso agli animali che vengono umanizzati e divinizzati al punto da sottrarre addirittura risorse a sé stessi.
Oltre a questo, è una donna divorata da un cancro al seno che volontariamente ha deciso di partecipare all’esperimento sociale. Pensando che i piani siano circa 200 e capendo che il sistema funzionerebbe se ogni detenuto si limitasse a mangiare la sua porzione, Imoguiri è animata da uno spirito solidale e umano così forte che, giunta ai livelli più bassi, deciderà di suicidarsi affinché Goreng e Baharat possano sopravvivere mangiando la sua carne.
La solidarietà per cui si batteva risulta un atto sconosciuto al resto dei detenuti e infatti a un certo punto sarà chiara la citazione “Le persone si convincono con la merda, non con la solidarietà”. Espressione di un concetto tutt’ora presente nelle propagande politiche infarcite di fake news, violenze verbali, e smanie di protagonismo.
Il buco, una possibile spiegazione del finale
La discesa di Baharat e Goreng verso l’ultimo livello (che solo alla fine scopriranno essere il 333), ricorda inverosimilmente la catabasi di Dante e Virgilio nell’Inferno, in cui ogni piano corrisponderebbe ad un girone (ci sarà ad esempio un piano in cui il detenuto conserva gelosamente i soldi, come se fossero il bene principale: pensiero comune degli avari danteschi e contemporanei). E chissà se si tratti di un caso che al piano 5 ci sia una coppia di amanti e che il Canto V dantesco sia dedicato ai lussuriosi, morti per amore.
Solo alla fine di quest’inferno i due detenuti scopriranno che i livelli sono 333 dunque i detenuti 666: il numero del diavolo.
La varietà di inquadrature, i colori freddi ed asfissianti, talvolta rossi e saturi, il punto di vista di Goreng, trasmettono allo spettatore un senso di soffocamento e inquietudine generale tale da far diventare lo schermo un vero e proprio inferno orrorifico e crudele.
L’unico spiraglio di luce bianca, su uno sfondo completamente nero, si avrà nelle ultime scene quando, arrivati all’ultimo piano, Goreng e Baharat scorgono una bambina. La chiave per aprire la porta del paradiso, il messaggio con cui sovvertire il sistema.
È a questo punto che affiorano tutte le allegorie e i simbolismi seminati nel corso dell’intera storia. Il film termina con la morte di Baharat e la scelta di Goreng di lasciare andare la bambina al piano 0, da sola. Per molti si tratta di un finale aperto poco adatto all’evolversi del fatto. Personalmente, credo invece che non potesse esserci una chiusura migliore.
L’insegnamento di Goreng
Quella di Goreng è una lezione di umiltà: designato più volte come Messia che si immola per il bene degli altri in una società corrotta in cui impera un verticalismo pericoloso che sacrifica le classi più basse mettendone a repentaglio la libertà e la vita.
L’unico modo per decostruire la struttura non è lamentarsi ma disporsi in orizzontale: tendere la propria mano, come ha fatto Baharat, e capire che da ogni azione compiuta nel presente dipende il futuro. Per questo motivo Goreng, vittima delle sue stesse azioni, decide di rimanere al piano 333 e lascia salire al piano 0 la bambina: speranza delle generazioni future che non sono ancora state consumate dalla corruzione del sistema.
Santina Morciano