Certo che l’arte è un mondo proprio strano: può accadere che un progetto resti in nuce per anni, a volte anche per più di un decennio. Probabilmente il cinema, trattandosi di opera collettiva, è un settore dove il rischio è più elevato in questo senso, e tale destino è capitato a “Il processo ai Chicago 7“. Il copione risale al 2007 ed ha visto la luce solo tredici anni dopo, con la pubblicazione avvenuta grazie all’impegno di Netflix.
Il processo ai Chicago 7 – Un film ed una storia controversa
In principio fu la Paramount Pictures, che nel progetto aveva investito 35 milioni di dollari dei quali 11 riservati all’ingaggio del cast (che approfondiremo a breve). Posticipo dopo posticipo causa Covid, il gigante americano del grande schermo invece che “accontentarsi” di una distribuzione nelle sale ridotta per il distanziamento sociale ha dato il benservito alla pellicola. Per la modica cifra di 56 milioni di dollari è stata inclusa sulla piattaforma streaming della N rossa dal 16 ottobre, dopo un passaggio di meno di un mese in cento cinema americani ed una fugace apparizione nelle sale nostrane.
I travagli affrontati dal film coincidono con il focus principale della trama che negli annali appare a dir poco controverso. Il fulcro è il processo ai cosiddetti Chicago Seven, un gruppo di attivisti (appartenenti a diverse frange della sinistra radicale, l’ala politicamente schierata su posizioni riformiste) contro la guerra del Vietnam accusati di cospirazione a Chicago in occasione delle proteste alla convention del Partito Democratico, durante l’indimenticabile estate del 1968.
Tra Oscar e interrogatori
Se quasi un terzo del budget è stato destinato al cast, un motivo c’è: alla regia il premio Oscar Aaron Sorkin, tra gli attori una selezione corale che comprende Eddie Redmayne (anche lui premiato agli Academy Awards nel 2015), Sacha Baron Cohen, Joseph Gordon-Levitt, John Carroll Lynch, Frank Langella e Michael Keaton. Lecito attendersi un lungometraggio di un certo livello, e “Il processo ai Chicago 7” non delude: due ore ed una manciata di minuti caratterizzati da ritmo di montaggio e dialoghi sagaci, sullo sfondo di un’America tumultuosa e decisamente incasinata.
Il film scivola senza ostacoli o passaggi gravosi, e se la fotografia non presenta spunti geniali il prodotto finale risulta compatto, organico e senza fronzoli di sorta. La nota stonata, forse, è che anche questa volta non si può fare a meno dallo strizzare l’occhio, in modo anche molto insistente, al legal drama. Sicuramente il genere nella serialità più avvezza allo streaming dimostra di vivere una stagione di auge, ma personalmente la ritengo una facile scappatoia stilistica per fare presa sul pubblico senza troppe complicazioni, piazzando obiezioni in quantità e un cucchiaio di monologo alla sbarra.
Tanto anche gli avvocati tra gli spettatori sono disposti a chiudere un occhio.
La resa finale supera con abbondanza la sufficienza, su questo non c’è il minimo dubbio. Frank Langella riesce ad essere ricordato come un antagonista alquanto fastidioso ma chi ne esce con grandi conferme è senza dubbio Sacha Baron Cohen: oltre la comicità c’è di più. “The Spy”, il sequel di “Borat“ ed ora “Il processo ai Chicago 7”. Per non andare off-topic: tre indizi fanno una prova.