Death to 2020 è il mockumentary realizzato dai creatori di Black Mirror, Charlie Brooker e Annabel Jones, disponibile sulla piattaforma streaming Netflix dal 27 dicembre 2020.
CAST & TRAMA
La pellicola narra le vicende salienti del 2020: dal dibattito dell’Academy Awards all’emergenza climatica, dalle primarie statunitensi alle presidenziali, dalla Brexit alla rinuncia dei titoli reali di Harry e Meghan, dai magnati dell’high tech a Boris Johnson, dall’omicidio di George Floyd alle politiche negazioniste e complottiste, etc, seguendo la progressiva diffusione del virus Sars-CoV 2 e arrivando a quella del vaccino iniziata solo da pochi giorni.
Attraverso la tecnica narrativa del finto documentario (o mockumentary), quello che ci si aspetterebbe essere un racconto vero e analizzato scientificamente – come ogni documentario che si rispetti – diventa un racconto comico che alterna immagini e video delle vicende più importanti del 2020 alla voce del narratore e a quella di ospiti disinformati, icone dei volti di cui abbiamo sentito più parlare in questi dodici mesi.
I personaggi, interpretati da un cast stellare, sono dunque gli pseudoesperti intervistati:
- un giornalista (Samuel L. Jackson)
- uno storico (Hugh Grant)
- uno scienziato (Samson Kayo)
- la regina Elisabetta (Tracey Ullman)
- una portavoce dell’ala conservatrice statunitense (Lisa Kudrow)
- una psicologa comportamentale (Leslie Jones)
- un giovane lavoratore precario e YouTuber (Joe Keery), che deve fare i conti anche con la crisi economica scatenata dal Coronovirus;
- una madre bianca e borghese (Cristin Milioti) – la tipica soccer mom – che trascorre il tempo sui social (WhatsApp, Facebook, Instagram, etc) ritenendoli fonti autorevoli di informazione e mostra gli atteggiamenti ipocriti del finto antirazzismo;
- un ricco CEO di una famosa azienda tecnologica (Kumail Nanjiani)
- una cittadina borghese (Diane Morgan).
“Direi che è stato un disastro, un casino [riferendosi al 2020, ndr], ma sarebbe un insulto ai disastri e ai casini”
La psicologa (Leslie Jones)
La voce narrante di Laurence Fishburne inizia a parlare spiegando che, sul finire del 2019, l’agenda politica della maggiori potenze mondiali prevedeva un impegno sul fronte ambientale e climatico. Ben presto, però, inizia la diffusione di un virus e le curiose teorie fantasiose sulla sua comparsa a Wuhan, in Cina, e la successiva diffusione nel mondo che ha dato vita a una pandemia (ammesso che si voglia credere non sia un complotto).
Death 2020 e gli errori di sempre
Death to 2020 mette in luce l’errore che si è fatto pensando che il Coronavirus abbia fermato la nostra vita. In realtà ciò che è cambiato è stata la percezione del tempo. Invece di continuare a premere il piede sull’acceleratore abbiamo fatto qualcosa che ci era talmente desueto (il rallentare) da illuderci fosse altro (lo stare fermi).
Abbiamo continuato a camminare. Siamo andati avanti. Il mondo ha continuato a girare e i problemi preesistenti non hanno fatto che acuirsi. Le immagini devastanti degli incendi in Australia, che hanno distrutto migliaia di chilometri del territorio, oltre che compromettere l’esistenza della flora e della fauna, si sono facilmente sostituite alle parole di Greta Thunberg, paladina nella lotta per la salvaguardia ambientale.
E non si è fermato neanche il razzismo sistemico, endemico, istituzionale, linguistico: onnipresente. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’uccisione di George Floyd avvenuta il 25 maggio 2020 a Minneapolis, in Minnesota, per mano del poliziotto Derek Chauvin.
È possibile descrivere con ironia un episodio del genere? Sì. Death to 2020 lo fa senza cadere nel banale o, peggio, nel ridicolo. Lo fa servendosi degli stereotipi, talvolta latenti ma comunque presenti, che mostrano l’aspetto afrofobico, tossico, pietista e intriso di white supremacy.
“Io non sono razzista ma… bisogna essere diffidenti”, “Bisogna protestare ma pacificamente”, “Al grido di Black Lives Matter bisogna sostituire quello di All Lives Matter” ed altre affermazioni del genere vengono espresse e accuratamente rovesciate. Così, con un fine sarcasmo, il mockumentary si è insediato nei paradigmi stigmatizzanti bianchi e… puff! ne ha mostrato l’inconsistenza come fossero bolle di sapone in mano a dei bambini illusi che si tratti di cristallo.
Una considerevole parte di Death to 2020 è dedicata alle presidenziali americane, anticipate dalle primarie. Paradossi, eventi e parole in cui davvero non si riesce a distinguere la realtà dalla parodia.
Cosa rimane, quindi, dopo la visione di questo mockumentary?
Se fosse uscito un anno fa lo avrei apprezzato per la coerenza di tecnica e di abilità narrativa che ha con gli episodi della serie di Black Mirror (Bandersnatch compreso). Invece l’ho visto dodici mesi dopo, quando il 2020 aveva già partorito i suoi dodici mesi problematici e complessi. E ho riso perché un anno fa l’avrei considerata una pellicola distopica e di cattivo gusto, paragonabile a un salotto tv trash e qualunquista.
Invece rido, perché quelle vicende sono vicine, vivide, vissute. La realtà ha superato la fantasia, addirittura quella degli immaginari che ci aveva proposto Brooker e Jones in quattro stagioni. È inquietante.