C’era una volta a… Hollywood? Chiamarsi Tarantino a volte non basta

C’era una volta a… Hollywood, il nono e forse ultimo film di Quentin Tarantino, con grande sorpresa si è dimostrato deludente rispetto alle aspettative.

Le premesse c’erano tutte e, durante i mesi di trepidante attesa, il trailer ci ha mostrato quello che sembrava essere un vero e proprio capolavoro. Dopo i primi 40 minuti in sala, però, si arriva alla consapevolezza che ciò che stiamo guardando è qualcosa di diverso da quello che speravamo.

Ma facciamo un passo indietro.

LA STRAGE DI BEL AIR

 

Grazie al grande lavoro promozionale ormai un po’ tutti sappiamo di cosa tratta il film. Due vite inventate, quelle dell’attore Rick Dalton (Leonardo Di Caprio) e della sua controfigura Cliff Booth (Brad Pitt), s’intrecciano nel 1969 con un avvenimento realmente accaduto: la strage di Bel Air.

Il 9 agosto la villa abitata dal regista Roman Polanski e sua moglie, l’attrice Sharon Tate, divenne teatro di una serie di omicidi operati dalla famiglia Manson, una comunità di hippy guidata da Charles Manson. Manson era una persona problematica, aveva vissuto un’infanzia difficile ed era entrato e uscito più volte dal carcere. Ossessionato dai Beatles, sognava di fare il musicista ma non aveva abbastanza talento.

Da abile manipolatore psicologico, cavalcò l’onda delle comunità hippy (fenomeno crescente negli ultimi anni ’60), e si trovò una serie di adepti, per lo più ragazzini sbandati e senza dimora, che lo seguivano come un guru e si lasciavano persuadere dalle sue teorie visionarie, come quella secondo cui lui fosse la reincarnazione di Cristo.

Insieme vivevano in un vecchio set di film western ormai inutilizzato, assumendo quotidianamente LSD e praticando l’amore libero, che spesso sfociava in orge collettive. Per vivere mendicavano in strada e si procuravano il cibo rovistando nei cassonetti della spazzatura, in attesa che, secondo le promesse di “Charlie”, un grande produttore avrebbe fatto di lui una star, rendendolo ricco e famoso. Ma ciò non avvenne mai.

I primi omicidi ebbero luogo ai danni di alcuni spacciatori con cui Manson si era indebitato, ma un membro della famiglia coinvolto nell’assassinio fu catturato dalla polizia. Per paura che il ragazzo confessasse tutto, Manson organizzò con i suoi seguaci altri delitti dalle modalità simili, con l’obiettivo di far credere alla polizia di aver preso la persona sbagliata e far scagionare il detenuto. Il primo indirizzo a venirgli in mente fu 10050 Cielo Drive, abitazione di Terry Melcher, produttore discografico che poco tempo prima aveva stroncato le sue canzoni, infrangendo il sogno di diventare musicista.

Al 10050 di Cielo Drive, però, Melcher non ci viveva più. Adesso nella villa risiedevano Roman Polanski e Sharon Tate, sua moglie. Manson ne venne a conoscenza, ma decise comunque di andare avanti con il piano. La notte fra l’8 e il 9 agosto 1969 quattro membri della famiglia – un uomo e tre donne – irruppero nella casa.

Nell’abitazione erano presenti la Tate e tre amici della coppia (Polanski si trovava a Londra per lavoro). Fra spari e coltellate, nessuno di loro sopravvisse a quella notte. L’ultima a morire fu Sharon, che in quel momento era all’ottavo mese di gravidanza. Aveva 26 anni.

C’era una volta a… Hollywood

C’ERA UNA VOLTA A… HOLLYWOOD: UNA FAVOLA NOIOSA

 

Contrariamente a quanto si possa pensare, la pellicola non è incentrata sulla strage di Bel Air, anzi, i fatti legati alla vicenda del ’69 sono rappresentati molto alla lontana e godono di un approfondimento pressoché nullo.

La cosa andrebbe anche bene se non fosse che, per una persona non completamente informata a monte su ciò che accadde in quella circostanza, è difficile comprendere determinate scene. L’aura di Manson si percepisce spesso, ma lui non compare mai e non se ne parla apertamente. Soltanto in una scena il suo personaggio si palesa (impersonato, peraltro, da Damon Herriman, che interpreta lo stesso Manson nella serie tv Mindhunter), quando – come accadde anche nella realtà – si reca al 10050 Cielo Drive in cerca di Terry Melcher, e lì adocchia Sharon Tate.

La vera trama è concentrata sul vicino di casa dei Polanski, Rick Dalton, attore televisivo in declino che si ritrova ad accettare parti in film western di serie B. Poi c’è Cliff Booth, sua inseparabile controfigura nonché migliore amico. La strage di Bel Air, inizialmente, sembra quasi un pretesto per poter raccontare queste due vite inventate.

Leonardo DiCaprio e Brad Pitt sono ironici, divertenti e regalano un tono a tutta la pellicola. Anche Margot Robbie è stata brava nel mostrare il lato angelico ed etereo di Sharon Tate. Peccato risulti un po’ castrata a causa del poco spazio avuto per esprimersi.

L’intero film è quindi un inno al cinema. L’amore per il cinema è ovunque. Ci sono centinaia di citazioni, riferimenti e apparizioni di grandi attori del passato come Bruce Lee (Mike Moh) e Steve McQueen (Damian Lewis). Ci sono pezzi di film originali, come Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm con la reale Sharon Tate, ed effetti speciali in cui gli attori attuali sono stati incollati all’interno di vecchie pellicole, come Leonardo DiCaprio inserito al posto di Steve McQueen in La grande fuga (1963).

Parallelamente, la ricostruzione della Hollywood di quegli anni è assolutamente magnifica in ogni dettaglio e l’atmosfera riesce a far immergere nel passato.

C’era una volta a… Hollywood

Sembrerebbe tutto perfetto, ma allora cosa manca?

 

La storia. Manca la storia. Per una durata di quasi tre ore ci sono scene di vita quotidiana in cui, però, non accade assolutamente nulla. Per tutto il tempo si ha la sensazione che stia per succedere qualcosa. Quel qualcosa però sembra non arrivare mai e lascia lo spettatore in un senso di confusione totale. Si è parlato di un Tarantino più maturo e sofisticato, forse perché per una volta privo della violenza che lo ha sempre contraddistinto. Violenza che tuttavia scoppia negli ultimi quindici minuti con facce fracassate su spigoli ed improbabili lanciafiamme.

Ma allora qual è il senso di ciò che abbiamo visto? Il senso in effetti c’è, ed è sempre stato sotto al nostro naso, nascosto nel titolo. Ma per quanto la chiosa finale sia una nobile idea (utilizzata già in precedenza per Bastardi senza gloria), purtroppo non basta a risollevare l’entusiasmo, morto e sepolto a causa del ritmo fiacco di tutto il film.

Chi conosce Tarantino ritroverà una serie di suoi marchi di fabbrica, come i lunghi dialoghi, il citazionismo cinematografico, i piedi femminili, i camei e i fedelissimi attori ricorrenti. Tra questi troviamo anche Luke Perry nella sua ultima interpretazione prima della morte. Lo stile si percepisce e il film è tecnicamente perfetto, ma sembra che il regista abbia voluto soltanto celebrare se stesso, concentrandosi più sul contorno che sulla sostanza. Il risultato finale fa pensare ad un’enorme e lussuosa villa costruita sulle sabbie mobili: apparentemente bella, ma purtroppo non regge.

E in effetti, dopo la proiezione del film al Festival di Cannes la pellicola ha ottenuto 7 minuti di standing ovation, ma alla fine l’unico ad aver vinto qualcosa è stato il cane di Brad Pitt.

Un film tecnicamente perfetto non basta per essere un buon film, come non basta saper scrivere bene per produrre un buon libro. Ci deve essere qualcosa da raccontare. L’ironia della sorte è che in questo caso qualcosa da raccontare c’era, ma è stata soppressa dal bighellonare del regista. Chi come me ha sempre amato il “re del pulp” capirà come non sia facile giudicare negativamente un suo film. Bisogna ammettere però che in passato siamo stati abituati ad un livello superiore e a produzioni più brillanti e memorabili.

Il peso di chiamarsi Tarantino si fa sentire e, per una volta, la realtà resta più interessante della fantasia.

 

Federica Brosca

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