Il 1º novembre del 1970 Fabrizio De André pubblicava il suo quarto album d’inediti: La Buona Novella. Oggi quel disco compie mezzo secolo. Il concept prende spunto dalla lettura dei vangeli apocrifi, in particolare del protovangelo di Giacomo e del vangelo arabo dell’infanzia.
De André dichiarò:
«Avevo urgenza di salvare il cristianesimo dal cattolicesimo. I vangeli apocrifi sono una lettura bellissima con molti punti di contatto con l’ideologia anarchica.»
Allora come oggi, forse, ci sarà qualche religioso che storcerà il naso all’idea di veder raccontati i “sacri” personaggi del Vangelo dalla voce di un ateo. Specie se si tratta di vangeli cosiddetti “ falsi”. Apocrifo significa ‘segreto’, ma “l’ufficio stampa” di Gesù (la Chiesa) decise che erano da considerarsi dei falsi.
Se si conosce Fabrizio De André e la sua musica non ci si sorprende di come, ancora una volta, il cantautore genovese, con questo album, stupì per la sensibilità e il modo profondo di trattare eventi e personaggi.
Faber ebbe il coraggio di scegliere un argomento complesso, ‘scottante’, enigmatico e metafisico come la religione. Bisogna poi tener presente il tempo in cui fu fatto (gli anni ’70). Un periodo in cui molti preferivano non toccare certi argomenti per il timore di essere fraintesi o censurati.
Un tema rilevante trattato con consapevolezza, rispetto, umiltà, senza arroganza o alcuna pretesa. Son convinta, perciò, che anche i religiosi più estremisti, se aprissero davvero la loro mente, non potrebbero far altro che emozionarsi di fronte a quei versi che conducono nel cuore di quei personaggi che ancora oggi sentiamo vicini.
Con La Buona Novella, Fabrizio De André dimostrò di come non si sta sempre dalla parte o dei bianchi o dei neri. Di come non esiste aprioristicamente il giusto e ciò che non lo è, ma esiste lo spirito critico che mostra le cose sotto altre prospettive prima di essere giudicate, dando un grande schiaffo morale a chi lo definiva essenzialmente un anarchico anticonformista ribelle.
Aggettivi che si portava dietro con eleganza ed orgoglio, e che hanno rappresentato per lui, soprattutto negli anni della contestazione giovanile, solo un’etichetta. Motivo per il quale per molti era inconcepibile che Fabrizio decidesse di scrivere addirittura un intero album su Gesù Cristo. Ecco, credo fu anticonformista proprio in quell’occasione: quando il mondo cercava di liberarsi del vecchio e creare nuovi modelli da seguire, lui riconobbe “il più grande rivoluzionario di tutti i tempi” proprio in Gesù Cristo. E così uscì fuori un tipo di lavoro mai visto prima. Unico nel suo genere.
Fabrizio De André – La Buona Novella
Se ci azzardassimo a dire che La Buona Novella è probabilmente il migliore lavoro del cantautore genovese non staremmo commettendo, in fin dei conti, un’eresia.
Vale la pena pertanto, a questo punto, calarci nell’analisi di in un album i cui testi parlano da soli. Compiendo quest’operazione, mi auguro che il ripercorrere brevemente la storia narrata nelle canzoni ci aiuti a comprendere, ricordare ed omaggiare il capolavoro che abbiamo di fronte.
Lato A
Laudate Dominum
“Lodate il signore”. Un unico verso, cantato per soli 21 secondi da un coro solenne, fa da incipit all’album. Il significato si capirà alla fine, riconducendolo all’ultimo brano.
L’infanzia di Maria
Si parte narrando l’infanzia della madre di Gesù. La piccola Maria ha un destino già segnato e un’infanzia negata. Chiusa in convento ha come unico passatempo la preghiera, finché “la sua verginità si tingeva di rosso” e cioè, con la comparsa delle mestruazioni, diventa ‘matura’ per essere data in sposa. Un coro di uomini la osserva e apprezza la sua delicata bellezza, ma la sorte tocca al vecchio Giuseppe. Quest’ultimo, ubbidiente, accoglie Maria come una figlia visto che diversamente non avrebbe potuto fare, per quanto “stanco di essere stanco”, già padre di molti figli e sulle spalle il lavoro di falegname.
Subito Giuseppe deve mettersi in viaggio fuori dalla Giudea per lavoro e resterà lontano da casa 4 anni
Il ritorno di Giuseppe
Quattro anni sono abbastanza per sconvolgere la vita di Giuseppe. Inizialmente è narrato il lungo viaggio dell’uomo in groppa ad un asino per il deserto, con metafore e similitudini. Porta con sé una bambola di legno per la piccola Maria, ma arrivato a Gerusalemme si rende conto di avere di fronte non più una bambina. Lei, desiderosa di affetto e di comprensione, le butta le braccia al collo. Lui ricambia ma gli basta scendere sui fianchi per rendersi conto che avevano “una forma precisa d’una vita recente”: è incinta. Di fronte la confusione di Giuseppe, Maria gli spiega che è solo frutto di un sogno.
Il sogno di Maria
Commovente racconto di Maria che incontra l’angelo e disarmata si abbandona alla leggerezza che le porta quell’incontro. Dall’“umido e scuro tempio” dove vive Maria, paragonato ad un grembo materno, si passa ad una realtà quasi eterica. Sogno nel sogno e lì l’angelo, prima di lasciarle la sorpresa, la porta a “conoscere l’estate”, a volare libera al di sopra del mondo reale, “tra valli fiorite dove all’ulivo si abbraccia la vite” (ulivo e vite sono due simboli del cristianesimo). Il sogno dura fino all’imbrunire (“là dove il giorno si perde”). Nel sogno compaiono improvvisamente anche i sacerdoti, di cui evidentemente Maria non ha un bel ricordo. Fino a che le voci di strada la destano e Maria si ritrova frastornata con “parole confuse,[…] svanite in un sogno ma impresse nel ventre”.
Nell’ultima strofa si capisce che Maria ha appena raccontato il suo sogno a Giuseppe che, inaspettatamente, invece di ripudiarla la accarezza col timore di farle del male.
Finora si è mostrata la figura di Giuseppe così come è nell’immaginario comune: uomo saggio che, con enorme pazienza e bontà, accetta il suo destino.
Ave Maria
Inno per eccellenza alla maternità. Qualcuno ha detto di De André: “più profonda della sua voce c’è solo la sua poesia”. Be’, questo ne è un esempio lampante.
Qui Maria è simbolo di tutte le donne. I versi mettono in luce il privilegio di una donna di avere in grembo una vita e naturalmente la bellezza di essere madre. “Femmine un giorno e poi madri per sempre nella stagione che stagioni non sente”: una volta diventate madri non si smette mai di esserlo.
Se finora si è parlato ampiamente della figura di Maria e Giuseppe, nel lato B del disco subentrano altri volti e, cosa straordinaria, De André mostrerà il punto di vista di personaggi che non ci aspetteremmo mai, come i ladroni crocifissi con Gesù e le loro madri.
Lato B
Maria nella bottega del falegname
Si concretizza di fronte a Maria il destino del figlio. Si passa dal ‘concepimento’ alla crocifissione. Il falegname in questione non è Giuseppe, ma colui che è stato commissionato a fabbricare le croci per la crocifissione, la più grande delle quali abbraccerà colui che “insegnò a disertare”, da buon rivoluzionario: Gesù
Subentra qui anche un coro di voci. È il popolo che in parte si unisce alla sofferenza di Maria, in parte non vede l’ora di vedere morto Gesù.
Via della croce
Eccoci alla crocifissione. Il momento in cui si raggiunge il pathos. Gesù non solo è costretto a portare il peso della croce ma deve anche sentire la voce dei padri che Erode trucidò a causa sua. Considerato da loro solo come un ciarlatano, diventa il capo espiatorio su cui gettare veleno.
In processione a fianco ai padri ci sono le donne addolorate per Gesù – l’unico da cui hanno ricevuto considerazione e perdono “con un gesto soltanto fraterno” – da sempre considerate, come delle schiave.
Seguono gli apostoli presentati come vigliacchi e spaventati dall’idea che qualcuno li riconosca come i seguaci di Cristo. Saranno loro a “seminare la buona novella”, ma “stasera è più forte il terrore.”
Sono presenti ovviamente i testimoni del potere, coloro i quali godono di più della morte di Cristo perché adesso non può più dar loro fastidio con le sue predicazioni e gesti che sono stati d’aiuto soprattutto ai poveri, gli straccioni a cui, però, non è permesso “l’ingresso allo spettacolo”.
Infine entrano in scena i due ladroni. Ecco, loro non provano pena per Gesù e non per egoismo, ma perché in quel momento sono uomini sofferenti e morenti anche loro. Solo, hanno una croce più piccola e non verranno ricordati come ‘eroi’, “in fondo son solo due ladri”.
Tre madri
Le tre madri in questione sono Maria e le madri dei ladroni. Esattamente, come ai figli è toccata la stessa sorte così anche loro condividono la stessa angoscia. Sono donne che provano il medesimo, struggente, dolore. Qui Maria è presa di mira dalle altre due madri, che vogliono avere più spazio per piangere i loro figli perché almeno per lei c’è la speranza della resurrezione del figlio. Ma Maria ci ricorda, rispondendo, che lei è semplicemente un madre, fatta di carne e ossa che sta perdendo suo figlio, non importa quanto questo sarà ricordato dai posteri, non servirà a colmare il peso della sua morte. “Non fossi stato figlio di Dio, t’avrei ancora per figlio mio“.
Il testamento di Tito
Come in un flashback qui la parola passa a Tito.
È il brano dell’album che potremmo definire ‘politico’. Tito passa in rassegna i dieci comandamenti e li scardina uno ad uno, dimostrando quanto siano incoerenti rispetto alla realtà che troppo spesso si dimostra molto diversa e lontana rispetto alle leggi che ci vengono imposte e che, come spesso De André sottolineava, vengono fatte su misura . “lo sanno a memoria il diritto di divino ma scordano sempre il perdono”: qui la Chiesa e i suoi uomini sono presi di mira.
Il brano ci fa riflettere sul senso di tutta l’opera. Sì, perché La buona novella veicola valori importanti quali perdono, empatia, accoglienza e amore. Vengono fuori degli esempi di vita attraverso le condotte dei personaggi e non dalle loro parole e prediche: “io nel vedere quest’uomo che muore, Madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, Madre, ho imparato l’amore“.
Laudate Hominem
L’ultima traccia, anch’essa cantata da un coro solenne, si riconduce alla prima, lasciando una sorta di morale del percorso ascoltato: lodate l’uomo! lodate chi nella sua umana imperfezione sbaglia anche, perché è con i suoi sbagli che riuscirà a perdonare. “No, non devo pensarti figlio di Dio ma figlio dell’uomo, fratello anche mio.” E non lodate quel Dio strumentalizzato dal potere che, in suo nome, ha ammazzato e poi si è assolto.
Notate bene che De André porta al centro figure come Giuseppe, Maria, Tito, le madri dei ladroni, e altre parti del coro, ma non quella di Gesù, che viene solo citato. Il suo spazio nella storia da predicatore lo ha avuto ampiamente, adesso è tempo di lasciare spazio alle altre voci e a nuovi punti di vista.
Una cosa è certa, ed è stata ampiamente messa in luce dalla critica e da De André stesso: ogni personaggio acquista dignità di uomo, anziché essere presentato come sacro. In tal modo si prova empatia verso tutti i personaggi, uomini e donne a cui, spesso, è stato chiesto tanto. Una vicinanza che, mi permetto di dire, non so fino a che punto si sente nelle messe domenicali o al catechismo.
Claudia Avena