Circolo Ohibò: ci ricordiamo di un club solo quando chiude

La notizia sta rimbalzando sul web da ieri, generando gran chiacchiericcio e sentimenti di dispiacere sulle piattaforme social: Il Circolo Ohibò, punto di riferimento a Milano per la concertistica live, chiude i battenti. Nonostante un folto numero di concerti programmati e ricalendarizzati causa emergenza Covid, la venue non vede la luce in fondo al tunnel e ne resterà solo un ricordo.

Il dramma è nascosto sempre dietro la solita dinamica: ci ricordiamo di un club solo quando chiude.

 

 

Negli anni ’10 di questo terzo millennio si è assistito all’avvento del tramonto della concertistica di un certo tipo, con le innumerevoli chiusure (su territorio nazionale ed in modo più sensibile nelle zone dov’è più difficile, per motivi eterogenei, fare concerti) che hanno di fatto spianato questi anni ’20, che hanno primi sentori a dir poco mortiferi.

Facile abbandonarsi al flusso dei ricordi, nettamente più difficile cercare di tenerli in vita questi posti. Vuoi per scelte di serata, reti sociali, (in)disponibilità economiche o semplicemente scazzo, penso che abbiamo tutti (me compreso) dato meno di quanto ricevuto da determinati contesti che hanno permesso a band piccole, anche attraverso esibizioni davanti a trenta persone, di diventare grandi e spingersi fino ai palazzetti.

Sostenere una scena era un impegno ideologico, un qualcosa che è inattuabile nel concreto dei giorni nostri, sia perché i concerti, come canonicamente intesi, non si possono fare, sia perché la musica, gli eventi si sono evoluti e non sappiamo neanche dove stanno andando.

 

Circolo Ohibò

Come (ri)partire?

Le location medie (quelle dai 100 ai 500 ingressi, per intenderci) boccheggiano, e il Covid-19 come previsto è solo la spada di Damocle che si abbatte definitivamente per decapitare il principale viatico tra l’essere sconosciuti e gente che quantomeno ci paga le bollette con le proprie performance.

La musica è diventata liquida, il declino della copia fisica a favore dello streaming (legale o presunto tale) ha favorito una fruizione completamente diversa, e ci ritrova spaccati tra completo anonimato e fenomeni della stagione che per un anno fanno incetta di certificazioni FIMI e sold out per poi essere messi in secondo piano nelle strategie discografiche.

Da cosa può ripartire la concertistica live?

Difficile dirlo. Le dirette streaming si sono rivelate un palliativo che ha finito per mordersi la coda. Mentre la settimana prima piacevano a tutti, sette giorni dopo il mood dominante era “no dai che noia un’altra live in stream sono sommerso ormai!”. Dubito seriamente che le persone siano disposte a pagare per concerti attraverso questa fruizione.

 

 

Gli showcase, conosciuti in modo canonico, non portano grandi introiti, tenendo sempre ben a mente che la principale fonte d’ingresso economico per un musicista è suonare, non vendere dischi.

I tour nazionali si fanno a rimborso spese, e spesso significa rimetterci di tasca propria.

Il tutto aspettando la chiamata di un’etichetta forte, che è un po’ come attendere il messaggio di quella ragazza che ti piace tanto ma: “mmh, sai non sono tanto convinta”. Non arriva, e se arriva può capitare alle tre di notte quando la tua serata è bella che finita.

Questo per dire che ci apprestiamo a vivere anni dove gli ascoltatori sicuramente si avvicineranno alla musica, ma non si sa in quale modo. I club stanno sparendo, i concerti anche e non si può vivere di ascolti in cuffia. I ragazzini di oggi (under 15, orientativamente) saranno orfani di un gran bel modo di fare socialità e creare connessioni attraverso questa forma d’arte, mentre per tutti gli altri sarà tutto un gigantesco “ma ti ricordi quella volta che…”.

Probabilmente, l’abbiamo voluto noi e ce lo siamo meritati.

 

Giandomenico Piccolo

Giornalista | Creativo | Direttore di Scè dal 2018. Collaboro con diverse testate e mi occupo di ufficio stampa e comunicazione digitale. Unico denominatore? La musica.

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